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Pochi “rifiuti” per Duterte. Uno sguardo alla lite con il Canada e alle elezioni midterm nelle Filippine

Il Presidente democratico Rodrigo Duterte ha scelto la sua linea sulle politiche sulla gestione dei rifiuti del suo Paese. Lo ha fatto alla vigilia di un importante appuntamento elettorale, in cui secondo le proiezioni, saranno ben pochi a dirgli di no.

Le Filippine hanno fissato al 15 maggio, quindi tra tre giorni, solo due dopo le elezioni di midterm, il ritiro da parte del Canada dei 69 container che da sei anni sono stipati nei porti dell’arcipelago asiatico. Nonostante i continui solleciti, che lo scorso 24 aprile hanno visto il presidente Rodrigo Duterte disposto persino a dichiarare guerra al Canada pur di risolvere il problema, sembra che il Governo nordamericano abbia accettato di coprire i costi, ma anche che abbia chiesto ulteriore tempo, almeno una manciata di settimane, per sbrigare definitivamente le pratiche necessarie al recupero dei rifiuti.

I 103 container, dal peso approssimativo di 2.450 tonnellate, erano arrivati sulle sponde filippine tra il 2013 e il 2014, nei porti di Subic e Manila. Di questi solo due giacerebbero nelle aree di stoccaggio internazionale della capitale, il resto è nel porto della provincia di Zambales. Il carico faceva parte di una transazione commerciale in cui il Governo di Ottawa non era formalmente coinvolto.

I primi 50 container erano stati inviati dalla società privata canadese “Chronic Plastics Incorporated”, con sede a Ontario, tra giugno e agosto 2013, mentre i restanti erano arrivati tra dicembre 2013 e gennaio 2014. Il disguido è emerso il 21 gennaio del 2014 durante alcuni controlli di routine volti a verificarne il contenuto. Secondo quanto dichiarato dalle autorità filippine la società canadese avrebbe dichiarato erroneamente il materiale come “riciclabile”, ma i rifiuti emersi dai 18 container ispezionati sarebbero risultati di natura solida urbana non riciclabile: pannolini per adulti, rifiuti domestici di varia natura, sacchetti in plastica.

Nel luglio del 2015, è stato disposto lo smistamento di 26 container, poi giunti nelle aree di Tarlac, la città dell’ex Presidente Corazon Aquino, una cittadina nella regione del Luzon centrale a nord del Paese.

Il carico è stato confermato anche da Rufo Colayco, il presidente della “Metro Clark Waste Management Corp”, l’azienda che ha smaltito i rifiuti. Alla conta totale mancherebbero altri 8 container, sopraggiunti nel mezzo del primo smistamento, e di cui non si conosce né la natura, né l’attuale localizzazione. Colayco ha dichiarato che i container sarebbero stati richiusi e spostati altrove su ordine del parlamentare locale Victor Yap. Proprio in queste ore Aileen Lucero, dell’associazione “Ecowaste Coalition”, ha sollevato il problema, e ha chiesto di far luce sulla sorte dei rifiuti. Alcune associazioni non hanno escluso che il carico possa rappresentare un pericolo per la salute delle persone e per l’ambiente.

Il riciclo di rifiuti in paesi meno sviluppati è ormai quasi una prassi per molti paesi occidentali, visto il basso costo che comporta. Per esempio gli Stati Uniti, l’economia più fiorente del pianeta, spedisce circa un terzo dei suoi rifiuti all’estero, soprattutto in Cina. Dal primo gennaio dello scorso anno, però, Pechino, ha serrato i suoi porti avviando l’operazione “Green Fence”, di fatto riducendo drasticamente il ruolo di più grande importatore di rifiuti stranieri di tutto il pianeta. L’operazione ha causato al contempo un aumento delle importazioni nei paesi del sud-est asiatico. Per esempio nel 2018 la Malesia ha raddoppiato l’import di rifiuti dagli Stati Uniti, ed è molto probabile che in futuro questo trend venga confermato. Tutto questo nonostante l’aumento della produzione di rifiuti in loco generatasi dopo il boom economico e non pienamente controbilanciata da un’adeguata evoluzione negli smaltimenti. Secondo le stime delle Nazioni Unite nel sud est asiatico il tasso delle plastiche non gestite accuratamente si attesta al 75 percento del totale, per cui il rischio che l’Asia diventi la pattumiera dell’Occidente è sempre più concreto.

Durante una riunione di Gabinetto tenutasi lo scorso lunedì Rodrigo Duterte ha annunciato l’intenzione di rivedere le politiche sulla gestione dei rifiuti giunti da altri Paesi, al fine proprio di evitare di far diventare le Filippine lo“spazzino” dell’Occidente. Non a caso Manila ha rifiutato la proposta di smaltire in loco i rifiuti della “Chronic Plastics Incorporated” invitando il Paese dell’acero rosso a riprenderseli. Un po' come avvenuto come la Corea del Sud.

Sulla questione, nata prima del suo insediamento, è inciampato anche il premier liberale Justin Trudeau: nonostante i buoni propositi confermati durante la visita a nella capitale nel 2015 il suo Paese non è ancora riuscito a risolvere la questione. Nel 2016, però, il Canada ha varato delle leggi volte a prevenire casi simili e a incitare le società private a riprendersi i carichi su richiesta, mutando di fatto la situazione legale che rendeva giuridicamente impossibile una soluzione. Dayna Scott, un’esperta in materia, ha evidenziato come questo caso danneggi la reputazione del Canada e come rappresenti al contempo un esempio di come l’inquinamento scorra dal Paese più forte a quello più debole.

Dal punto di vista del diritto internazionale il movimento transfrontaliero dei rifiuti pericolosi e il loro smistamento nei paesi meno sviluppati è regolato dalla Convenzione di Basilea del 1989, la quale garantisce ad ogni Stato sovrano di vietare l’ingresso di rifiuti pericolosi, di far si che i rifiuti (pericolosi o non) siano smaltiti nel Paese di provenienza, di limitare al minimo il loro trasferimento e di rendere la loro gestione compatibile con la protezione della salute umana e dell’ambiente. La Convenzione prevede inoltre che una volta venuti a conoscenza dell’errata transazione, il Paese mittente avvii le procedure per riprendersi il carico entro i 30 giorni dall’avvenuta notifica. Sul caso della “Chronic Plastics Incorporated” si è espressa nel maggio 2017 anche la corte regionale di Manila, che ha ordinato il rimpatrio di 50 container.

Tutto questo alla vigilia delle elezioni di midterm. Lunedì 13 maggio, infatti, circa 60 milioni di elettori filippini saranno chiamati alle urne per rinnovare la Casa dei Rappresentanti, la camera bassa del Parlamento di Manila, che sarà scelta assieme alla metà dei componenti del Senato (12 su 24). Si tratta di elezioni considerate minori rispetto a quelle presidenziali, ma che potenzialmente rinforzeranno o indeboliranno il mandato di Duterte, la cui scadenza naturale è prevista per il 2022.

Un’ipotesi, l’indebolimento, assai lontana nonostante la situazione economica del paese sia distante dalle più rosee aspettative: nel primo trimestre dell’anno il Paese ha registrato un + 5.6 percento, meno di quanto ottenuto in passato. A pesare sull’economia c’è il mancato varo di alcuni importanti investimenti, dimezzati rispetto all’anno precedente, anche per via dei ritardi nell’approvazione nel bilancio del 2019. Duterte è comunque visto dalla popolazione come una risorsa, anche per via della sua capacità di dar voce alle minoranze e di rispondere efficacemente alla loro sofferenza quotidiana.

Uno dei temi più controversi è lo sradicamento del narcotraffico, un flagello la cui colpa è attribuita dal leader democratico alla colpevole compiacenza e indifferenza delle passate amministrazioni. La lotta al narcotraffico, però, nonostante le lodi del presidente americano Donald Trump, spesso viene considerata troppo efferata. Troppo spesso, infatti, le forze dell’ordine oltrepassano la legge pur di ottenere i successi auspicati. Dal novembre del 2018 l’agenzia per il contrasto alle droghe nelle Filippine (PDEA) ha dichiarato che sono stati uccisi più di 5050 persone e che ne sono state arrestate 164 mila. Ma secondo le organizzazioni non governative i numeri sono più alti.

Nonostante il parere positivo di Trump, l’impunità che avvolge il presidente Duterte ha sollevato numerose condanne dalla comunità internazionale. Tuttavia sul fronte interno i modi rudi del leader democratico continuano a mietere consenso. Secondo un recente sondaggio il 79 percento della popolazione lo sostiene. La vera battaglia alle prossime elezioni è però al Senato, la camera che ha voce su tutti i provvedimenti presidenziali e sulla messa in stato di accusa del Presidente. Secondo i sondaggi i maggiori candidati delle opposizioni sono dati lontani dalla vittoria. Ne è convinto anche il senatore liberale d’opposizione Francis “Kiko” Pangilinan, secondo cui le opposizioni avrebbero bisogno di “un miracolo” per ottenere una vittoria, visto anche lo scarso impegno elettorale profuso negli ultimi mesi.

Il tutto è a vantaggio dei fedelissimi di Duterte, che potrebbero conquistare otto dei nove seggi precedentemente conquistati dai fedeli di Aquino, ribaltando l’esito del midterm 2013. Il Partito Democratico delle Filippine e la nutrita schiera dei suoi alleati è atteso ad una vittoria facile anche alla camera bassa del Parlamento, dove nelle precedenti consultazioni la “Coalizione per il Cambiamento” ha messo su una maggioranza da 258 parlamentari su 297 .

Per Mark R. Thompson, direttore del Centro di ricerca nel Sud Est Asiatico, lo tsunami elettorale
previsto permetterà a Duterte di consolidare ulteriormente il suo dominio populista illiberale, i cui modi hanno distolto le attenzioni dalla “morte dello sviluppo” del Paese.

Foto: Pixabay

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