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‘Ndrangheta a Roma. Inchiesta tra i bar sequestrati


Tra gli oltre dieci esercizi sequestrati nell’ultimo mese, ci sono due bar intestati a parenti di Vincenzo Alvaro, per gli inquirenti affiliato, come suo padre, all’omonima cosca calabrese. Sarebbe lui il vero padrone dei locali, sospettati di essere un possibile strumento di riciclaggio. L’inchiesta del nostro inviato.


«La signora Domenica non c’è. Torni nel pomeriggio», mi dice il barista da dietro il bancone. Domenica Esposito è, quantomeno sulla carta, la titolare del bar, un piccolissimo locale del tuscolano, all’angolo di Via Ponzio Cominio, verso la periferia est di Roma. Lo gestisce con Maria Concetta, che nel quartiere conoscono tutti come una donna gentile, a modo, classe 1987, sorriso sulle labbra. Dietro quel sorriso, però, si nasconde un cognome che pesa. «I Palamara – ci spiega un investigatore – sono spesso imparentati con gli Alvaro». Ma che la signora Concetta porti quel cognome di per sé non ha alcun significato, come non lo ha di per sé il fatto che sia la nipote di Vincenzo Alvaro – che è anche cognato di Domenica Esposito – ritenuto dagli investigatori contiguo alla ‘ndrina omonima, il clan Alvaro di cui suo padre è affiliato, una cosca mafiosa originaria di Sinopoli e Cosoleto, provincia di Reggio Calabria, in affari con le ‘ndrine della piana di Gioia Tauro e operante ormai in tutta Italia. Vincenzo Alvaro è stato già assolto in appello dieci anni fa da un’accusa di mafia, ma per gli inquirenti la sua appartenenza al clan sarebbe dimostrata in alcune intercettazioni ritenute inutilizzabili nel processo per motivi procedurali.

Il 14 giugno scorso, le due donne, Maria Concetta Palamara e Domenica Esposito, hanno saputo di essere entrambe indagate a piede libero per intestazione fittizia di beni: secondo gli investigatori il Bar sarebbe stato intestato loro da Vincenzo Alvaro, che ne sarebbe stato il titolare di fatto. Gli investigatori sospettano che l’acquisto e la gestione di quello come di altri bar potrebbe essere stata finalizzata al riciclaggio di capitali mafiosi, ma per ora non sono riusciti a provarlo. «L’onere della prova spetta a loro», dice ad AgoraVox l’avvocato. Intanto la procura ha chiesto l’arresto preventivo per tutti, ma il Gip l’ha concesso solo per Alvaro e ha disposto il sequestro dei bar, lasciando tutti gli altri indagati a piede libero.


Dalle visure camerali si scopre che la proprietà della società che gestisce il bar di Via Ponzio Cominio, la Novecento S.r.l., è distribuita, in quote uguali di 5mila euro, tra Domenica Esposito e Maria Concetta Palamara. Vincenzo Alvaro non ne era proprietario né dipendente. Eppure veniva visto spesso lì al bar, che alcune mattine andava ad aprire lui stesso. Capitava che fosse lui a ritirare gli ordini e a sfogliare i cataloghi dei prodotti, e sempre lui si occupava di gestire le video slot. È facile immaginare che le titolari legali, se avessero accettato di parlarci, ci avrebbero detto che non c’è niente di male se un loro vicino parente, che li ha consigliati nell’impresa, sia stato disponibile ad aiutarli a titolo di favore. A noi un cliente abituale del bar ha raccontato che era a Vincenzo che rivolgeva lamentele sulle poco ornamentali impalcature per la ristrutturazione del palazzo che recintano l’accesso al bar e dispensava consigli su come riuscire a farle rimuovere. E un fornitore del bar, contattato da AgoraVox, ha detto: «Ogni tanto Vincenzo mi chiamava per le forniture. I rapporti col bar li gestivo a volte con lui, altre con la cognata o la nipote, a seconda di chi trovavo». Alvaro e le titolari ufficiali del bar, pare di capire, sono la stessa cosa.

Vincenzo, oltre a offrirsi d’aiuto per il bar di Via Cominio, faceva la spola con un altro bar-ristorante in Via Salaria, Il Naturista, all’altezza di Villa Borghese. Quel bar è amministrato dalla As.Ba. S.r.l. che, sempre secondo visure camerali, appartiene in quote uguali a Nicola Ascrizzi, altro nipote di Alvaro, e a Gabriele Teodoro Barresi, un giovane ragazzo appena ventenne (entrambi indagati a piede libero). Anche questa società è stata costituita con il capitale minimo di 10mila euro, il primo giugno 2010. Il 6 agosto i due acquisivano il bar da un anziano signore di più di settant’anni al costo di 160mila euro. Nell’atto notarile, che AgoraVox ha potuto leggere, c’è scritto che 15mila erano già stati liquidati, gli altri 145mila sarebbero stati pagati con rate mensili di 10mila euro ciascuna. AgoraVox ha scoperto che a fine luglio 2010 alla società sono arrivati finanziamenti da Rocco Barresi e Francesca Crisafulli, rispettivamente padre e madre di Gabriele Teodoro Barresi, allora 19enne, per un totale di 20mila euro «a mio figlio Teodoro per acquisto società».

Proprio pochi mesi prima Rocco Barresi aveva disinvestito una serie di prodotti assicurativi arrivati a scadenza per un importo sconosciuto di cui non è possibile conoscere la provenienza. Quando chiediamo l’origine di questo capitale ai soci del bar rispondono «risparmi di una vita di lavoro e di sacrifici», ma preferiscono non approfondire («non è questa la sede»).

Gli investigatori sospettano che spesso i nuovi proprietari potrebbero rilevare esercizi in difficoltà pagandone in anticipo e in nero l’intero ammontare, che in questo caso, secondo i periti della procura, avrebbero un valore molto maggiore di quello dichiarato, due milioni di euro per entrambi i bar (che complessivamente sulla carta ne valgono solo 325mila), con soldi sporchi, così da poter riuscire a riciclare subito un capitale cospicuo.

Nicola Alvaro nell’intervista rilasciata ad AgoraVox ha ammesso che l’esercizio, al momento della cessione, era effettivamente in difficoltà, ma ha specificato che il valore attribuitogli dalla procura è eccessivo: «forse hanno confuso l’esercizio commerciale e l’avviamento con le mura, l’immobile. Ma noi qui siamo in affitto». Ha ragione: una veloce verifica catastale dimostra che a nessuna delle due società che gestiscono i bar risultano intestati immobili. E a queste condizione è legittimo pensare che la perizia della procura sia una stima per eccesso: difficile credere davvero che i due bar possano valere in tutto più di un milione.



Nicola insiste a mostrarci le cattive condizioni in cui versa il locale, dal condizionatore difettoso ai frigoriferi non funzionanti. «A parte gli studenti quando escono dall’università, non entra quasi nessuno», dice. In effetti, alle cinque di pomeriggio il bar è deserto, ma per sapere cosa i consulenti della Procura abbiano calcolato nel valore complessivo di due milioni di euro, dovremo aspettare che le perizie siano rese pubbliche.

Secondo gli investigatori è fisiologico che società sospettate di essere strumento di riciclaggio abbiano i conti al limite dello scoperto, proprio per minimizzare le perdite in caso di sequestro (la Novecento S.r.l., secondo le informazioni in possesso di AgoraVox, aveva appena più debiti che liquidità). «Quando stanno per raggiungere lo scoperto – ci spiega un investigatore – puntualmente riparano con versamenti di somme di denaro di cui non si riesce a capire l’origine». «Normale attività contabile di un bar», si difendono loro. Eppure, almeno per quanto riguarda la Novecento S.r.l., ci risulta che questo meccanismo contabile sia iniziato con la nuova gestione.

Per capire se qualcosa di simile a quello che di solito sospettano gli inquirenti – il pagamento in nero con soldi sporchi, anche all’insaputa del venditore, mascherato sulla carta da un pagamento rateale d’importo minore – fosse successo con il bar in Via Ponzio Cominio, abbiamo provato a chiedere alla vecchia proprietaria. Il bar prima apparteneva a suo padre, e dopo la sua scomparsa lei ha continuato a lavorarci, prima con il fratello e poi da sola, anche durante la gravidanza, poi con il bambino che lasciava a casa la mattina per aprire il locale. Non ce la faceva più a gestirlo e ha venduto, forse senza neanche saperlo, ai presunti prestanome della ‘ndrangheta. Provo a contattarla. «Il mio numero chi glielo ha dato?» «Mi dispiace signora, io questo purtroppo non glielo posso dire». «Allora io non ti rispondo». Click.

La sera, a fine giornata, torno al bar di Via Ponzio Cominio per parlare con Domenica Esposito. Al telefono mi aveva detto di andare, che stava lì. Nel bar ritrovo l’avvocato e gli altri che avevo lasciato al Naturista quel pomeriggio. Chiedo alle signore se vogliono parlarmi, ma l’avvocato le sconsiglia: «Basta così», dice. Loro concordano. Esco dal bar. Ripenso alle oltre quindici attività commerciali sequestrate a Roma in meno di un mese: bar, ristoranti, il Cafè de Paris di Via Veneto, l’Antico Caffè Chigi frequentato da ministri e sottosegretari. Addirittura una ditta di pulizie. Mi tornano in mente le parole dell’Osservatorio per la Sicurezza e la Legalità della regione Lazio, che già nel 2008 scriveva che «non è esagerato parlare di forme di controllo di segmenti significativi del territorio». Poi alzo lo sguardo. Sul muro che sovrasta l’insegna del bar campeggia un graffito: «Padroni di Roma».


AGGIORNAMENTO: Anche hotel di lusso nel mirino di Alvaro. Coinvolto un tenente della D.I.A.

INTERVISTA: Il gestore del bar: "Pm avventati, i nostri soldi sono puliti. Siamo noi vittima di abusi"


INTERCETTAZIONI: Dalla contabilità alla banca ai dipendenti. Pensava a tutto il figlio del boss.


 

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