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Roma, le mafie vogliono palazzi e hotel di lusso. Coinvolto anche un tenente della Dia

Nel mirino della ‘Ndrangheta ci sarebbero anche hotel di lusso al centro di Roma. Nelle indagini è coinvolto un tenente dei carabinieri: avrebbe depistato le indagini sul boss e collaborato ai suoi affari. A una famiglia di presunti trafficanti vicini alla camorra sono stati confiscati beni, anche a Roma, per 150 milioni. C’è anche un monastero riconvertito in albergo, ma i tre risultano disoccupati.


Quando il 14 luglio scorso i Ros sequestrarono più di dieci esercizi commerciali ritenuti di proprietà della ‘Ndrangheta, Roma iniziò finalmente a preoccuparsi. Non solo perché furono apposti i sigilli, per la seconda volta in due anni, al Cafè de Paris in Via Veneto, ma perché era chiaro che i tentacoli delle organizzazioni criminali avevano penetrato il lungo e in largo la città, appropriandosi di locali importanti, ma anche di ditte di pulizie e di piccoli bar. Al centro della città come in periferia (AgoraVox ha dedicato a questi bar sequestrati un’inchiesta la settimana scorsa). Per il clan Alvaro, però, sarebbe stato solo l’antipasto. Vincenzo Alvaro puntava molto più in alto: ai ristoranti che contano e agli hotel tra i più prestigiosi della città.

Pochi giorni fa la Procura ha dovuto depositare al Tribunale del Riesame, a causa del ricorso contro la carcerazione preventiva di Vincenzo Alvaro presentata dai suoi legali (poi respinto), tutti gli atti dell’inchiesta, da cui emerge un’incredibile rete di investimenti. Damiano Villari, professione barbiere, che gli inquirenti ritengono un boss della ‘Ndrangheta e che avrebbe gestito gli investimenti del clan a Roma insieme a Vincenzo Alvaro, aveva in progetto affari d’oro. Il suo obiettivo era «diversificare gli investimenti», secondo gli investigatori per riciclare il denaro sporco della cosca.

Aveva avviato trattive anche con il principe Raimondo Orsini (cugino del principe Domenico Napoleone Orsini, massone fascista vicino a Licio Gelli e Umberto Bossi, coinvolto nel 1994 in una triangolazione di telefonate con Tullio Cannella, emissario politico del boss Leoluca Bagarella, e Marcello Dell’Utri nell’ambito del progetto di una “lega del sud” di Cosa Nostra), proprietario di due ristoranti a Roma (Le Cave a Piazza Sant’Ignazio e La Fontana in Via Liguria). Volevano prendere in affitto i locali. Il principe Orsini però ha preso informazioni su Villari, e dopo aver letto le visure camerali delle altre società del presunto boss, si è opposto all’affare, definendo i suoi interlocutori «persone inaffidabili».

Villari aveva anche cercato di comprare un casale a Roma Est «per fare un agriturismo», mentre Alvaro pensava agli alberghi: «Stavo pensando – dice al telefono al proprietario (prestanome per i pm) del Cafè de Paris – contatta il direttore del Baglioni, vedi un attimo se troviamo un accordo per prendere quell’albergo che ha dato a quelli dell’Harris Bar. Lo prendiamo noi». “Quell’albergo” è il Regina Hotel Baglioni di Via Veneto, cinque stelle lusso, uno dei più rinomati della capitale. È un palazzo liberty con più di un secolo di storia, elegantissimo, arredato con mobili dell’800. Nelle sue stanze hanno vissuto Gabriele D’Annunzio, che pur avendo una sua residenza romana lo utilizzava come ritrovo per il suo circolo culturale, e la Regina Margherita di Savoia, che ci abitò mentre aspettava il completamento dei lavori a Palazzo Margherita e che poi ha dato il nome all’hotel. Vincenzo Alvaro lo voleva per se, per riciclare, secondo la Procura, i soldi sporchi della ‘Ndrangheta. Per fortuna non ci riuscì, così come non riuscì a impossessarsi dell’Hotel Villa del Parco sulla Nomentana.

È andata meglio alla famiglia Terenzio: secondo il gip che ha disposto il sequestro, eseguito dalla Dia l’altro ieri, dei loro beni, Vincenzo, Gabriele e Luigi Terenzio sarebbero legati a doppio filo con il clan dei Caselesi, con il clan camorristico Giuliano di Forcella, ma anche con la criminalità romana: Casamonica e Banda della Magliana. Si sarebbero occupati di traffici di merci contraffatte provenienti dalla Cina per con società di import-export, e avrebbero avuto bisogno di investire i loro proventi illeciti per ripulirli. Tra le loro proprietà c’era anche l'albergo-castello Auricola Collina Paradiso, ricavato da un vecchio convento del ‘700 in provincia di Frosinone. Ma è solo una piccola perla di un patrimonio molto più vasto, che tra le province di Roma, Frosinone e Cassino può vantare, insieme all’albergo, 41 unità immobiliari e 22 terreni. Cui si aggiungono le concessionarie d’auto e società nel settore dell’abbigliamento che sono stati sequestrati loro insieme a una cinquantina tra depositi bancari e investimenti con intermediatori finanziari. Per un totale, stimato dalla Procura, di 150 milioni di euro. Un patrimonio un po’ sospetto per dei disoccupati.



Nelle indagini per riciclaggio sul patrimonio di Alvaro e Villari è coinvolto anche un tenente della Direzione Investigativa Antimafia. Si chiama Bruno Giovanni. I suoi rapporti con Vincenzo Alvaro risalgono al 2009, quando avrebbe tentato di alleggerire la posizione di Vincenzo Alvaro dopo l’arresto per avere spacciato 146 banconote da 100 dollari false. Nelle intercettazioni depositate al Tribunale del Riesame si legge che l’ufficiale a due stelle chiamò l’avvocato di Alvaro per fornire, con poca fantasia, una versione falsa dei fatti: quelle banconote false, diceva, ad Alvaro le avrebbe date un «cinese che era andato a comprare le sigarette» a un bar-tabacchi gestito da suo cognato. Un fumatore da 146mila dollari e oltretutto generoso: l’amico ideale. Una storia talmente assurda che lo stesso carabiniere, dopo averla raccontata, stupito esclamava: «Capito il capo ‘ndrina?»

Poi, dopo l’arresto, Bruno Giovanni avrebbe continuato ad aiutare Alvaro «in maniera attiva», depistando le indagini e consigliando il suo avvocato. Il tenente Giovanni, sostengono gli inquirenti, «metteva a disposizione di Alvaro Vincenzo e degli altri appartenenti alla cosca Alvaro e le sue funzioni personali e professionali, soprattutto nei momenti di difficoltà dei boss». Arrivando addirittura a fare il mediatore, per conto del “capo ‘ndrina”, tra alcuni calabresi vicini ad Alvaro e il proprietario di un terreno vicino l’ippodromo di Tor di Valle su cui Alvaro voleva investire.


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