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Manifestazione per la Pace: finalità, contraddizioni e qualche ambiguità

Il 5 novembre sfilerà a Roma una (presumibilmente molto affollata) manifestazione “per la Pace”.

“Condanniamo l’aggressore – sostiene il manifesto di convocazione  - rispettiamo la resistenza ucraina, ci impegniamo ad aiutare, sostenere, soccorrere il popolo ucraino, siamo a fianco delle vittime”, ma anche “siamo con chi rifiuta la logica della guerra e sceglie la nonviolenza”. Prima ambiguità: si rispettano i resistenti ucraini (cioè i combattenti), ma si sta con chi sceglie la nonviolenza.

Si definisce giustamente “inaccettabile” l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e si invoca la “diplomazia al fine di far prevalere il rispetto del diritto internazionale” al fine di “trovare una pace giusta”. E si cita, passaggio ormai obbligato, il Papa che, tra uno svarione e l’altro, ha cercato per mesi di non scontentare nessuno per salvarsi un ruolo di mediatore (con scarso successo per ora).

Una miriade di adesioni: dalla triade sindacale CGIL-CISL-UIL all’ANPI, da Pax Christi ai focolarini, dalle Sardine ai Valdesi, da Emergency alla redazione di Left (il cui nome è l’acronimo delle tre parole della rivoluzione francese – liberté, égalité e fraternité – ma curiosamente qui ècitato senza la T finale di Trasformazione che ne ha caratterizzato la nascita), dai Beati i costruttori di Pace a Legambiente, dalle ACLI all’ARCI, dai Comboniani a Radio Popolare, da Un ponte per a Finanza etica, da Mani Tese a Greenpeace all’Unione Inquilini a Differenza lesbica. Eccetera, eccetera.

Decine di sigle, le più disparate, che tutte assieme rappresentano l’intero ventaglio della non-destra, movimentista e “dal basso”, di questo paese. In larga parte di matrice cattolica e di sinistra quanto basta (cioè più di sinistra-sinistra che di centrosinistra).

Molti sono quelli che, in questi otto mesi di guerra, si sono apertamente dichiarati contro l’invasione russa, ma anche contro l’invio di armi per sostenere la resistenza dell’esercito di Kiev (che senza armi occidentali avrebbe resistito ben poco). Aprendo con il Partito democratico una querelle astiosa in cui si è gettato a capofitto quel Giuseppe Conte che nel frattempo aveva giocato tutti i ruoli in scena: da una parte controfirmava tutti gli invii di armi italiane decisi dal governo (poca cosa in realtà, da quel che è dato sapere) e dall’altra saliva sulle barricate dello sdegnoso rifiuto al sostegno militare. Posizione alquanto comoda che gli ha permesso di rastrellare voti nel fare l’oppositore del governo che sosteneva, scimmiottando quel Matteo Salvini da bosco e da riviera che faceva lo stesso con lui ai tempi dell’esperienza giallo-verde.

E forse qualcuno (probabilmente più d’uno) degli aderenti alla manifestazione romana aveva aderito a quelle di marzo, sfilando dietro allo striscione “né con Putin né con la Nato”, firmato da Rifondazione. Parola d’ordine poi fatta propria da tanti commentatori sentiti in seguito. Quelli che invocavano la necessaria “complessità” da soppesare in questo caso (ma non ovviamente nel caso delle guerre americane o israeliane, quelle pare che siano sempre semplicissime da interpretare): dai vari Santoro, Ovadia, Spinelli eccetera al giurista Ugo Mattei, al filologo Luciano Canfora, al fisico Carlo Rovelli, all’ineffabile filosofa (ex)heideggeriana Donatella Di Cesare («la pace è anche pensare di poter avere torto») fino al ben noto saggista Alessandro Orsini («Putin ucciderà tutti se noi riempiamo l’Ucraina di armi» ).

Sorvoliamo sulla raffinatezza di certe analisi femministe (in questa guerra «si consolida il mito del “vero uomo”, combattente e patriota», ma anche quello «di donne virilizzate e padrone della retorica bellicista»: questione di testosterone dunque, non di resistenti in armi per difendere la propria libertà).

La sintesi del “pacifismo” italiano è stata fin da subito “più armi mandiamo più durerà la guerra” che è, allo stesso tempo, la scoperta dell’acqua calda e la più manifesta espressione di una becera connivenza con le finalità putiniane che, ovviamente, contava appunto molto sul fatto che nessuno avrebbe mandato armi agli ucraini, per poter fare quello che voleva. La conclusione, grazie sempre all’ineffabile Orsini, avrebbe dovuto essere: dal momento che «questa è una guerra persa in partenza, o noi diamo a Putin quello che vuole o lui se lo prende lo stesso». Perché, disse, «bisogna avere il coraggio di ammettere che Putin ha già vinto».

Conseguentemente, dopo la controffensiva ucraina vincente sul campo, ecco che questa diventa, per lui, «una notizia disastrosa». 

La minaccia è sempre la stessa: Putin sventrerà l’Ucraina con la bomba atomica se gli si resiste. Come se i russi non sapessero che anche loro rischiano di essere sventrati a loro volta in un conflitto nucleare.

Di questo variegato mondo che si richiama al diritto internazionale da far prevalere (ergo: la Russia deve uscire dai confini internazionalmente riconosciuti del paese invaso, ma non si sa come convincerla visto che da quell'orecchio non ci sente), alla pace “giusta” (definizione ambiguamente indefinita: giusta per chi?) fino al rifiuto del sostegno militare perché “sennò la guerra durerà di più”, che cosa resta in realtà?

Tante aspirazioni assolutamente condivisibili (chi è che non vuole la pace? Chiedetelo agli ucraini prima di tutto) – e quindi ben vengano – ma anche una gran quantità di contraddizioni. E un tot di ambiguità.

E, insieme a loro, anche la totale assenza di approfondimenti sulla realtà di quell’ideologia eurasiatista che è diventata l’asse portante del putinismo. Un’ideologia apertamente reazionaria che mira a portare sotto l’egemonia di Mosca l’intera Europa osteggiando e contrastando apertamente quel progetto di unificazione europea che palesemente sta creando un continente in cui i diversi interessi nazionali si conciliano attraverso il dialogo e la ricerca dei compromessi possibili anziché, come è stato per secoli, per mezzo delle armi (come fa invece, e non da oggi, la Russia).

Eppure proprio Orsini l’aveva detto a chiare lettere: «Questo è un conflitto frontale tra Putin, la Russia e l'Europa». L’Europa è cioè parte in causa, in quanto aggredita dalla guerra di Putin in Ucraina e non può quindi essere mediatore tra Mosca e Kiev come vorrebbe il manifesto di convocazione del 5 novembre: “L’Italia, l’Unione Europea e gli stati membri, le Nazioni Unite devono assumersi la responsabilità del negoziato”.

Il rischio è alto, lo sappiamo, lo è stato fin da quel fatidico 24 febbraio. Ma la resistenza non riguarda solo l'Ucraina, riguarda tutti noi. Riguarda l'Europa della convivenza e dei diritti civili, riguarda quel po' di conquiste sociali che faticosamente abbiamo portato a casa, grazie ai sistemi democratici che condividiamo, contrastando quei reazionari di casa nostra che Putin in tutti questi anni ha sovvenzionato e sostenuto in tutti i modi.

Perché questo non è un "conflitto di civiltà", ma un conflitto tra il processo evolutivo e democratico che noi europei abbiamo iniziato a percorrere fra mille difficoltà e contraddizioni e quello involutivo e reazionario, teocratico, aggressivo e intimamente fascista, imboccato dal regime di Mosca.

Auguri a tutti noi.

 

 

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