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Le grandi potenze e l’Unità d’Italia - L’impresa di Garibaldi - L’opera di Camillo Benso di Cavour

I processi storico/politici sono assai più complessi dell’aneddotica con i quali si è tentati talvolta di trattare eventi i cui esiti si sono prodotti nel corso degli anni e a fronte dei quali risulta estremamente riduttivo, se non fuorviante, estrapolare singoli episodi con la pretesa di dimostrare il tutto. Questo vale con riguardo sia ai grandi personaggi, come Giuseppe Garibaldi e Camillo Benso di Cavour che ne furono protagonisti, che al contesto internazionale rappresentato dalle grandi potenze dell’Europa dell’epoca.

Garibaldi fu un eroe, come dire, universale. L’Inghilterra fu una delle nazioni che più ne coltivò il culto. In Inghilterra vi fu, infatti, una simpatia enorme per Garibaldi. La gran parte degli inglesi videro con favore l’unità dell’Italia e il “Times” scrisse di Garibaldi come di un eroe che combatteva in difesa dell’umanità. In tutta l’Inghilterra furono promosse sottoscrizioni per raccogliere denaro da inviare in Sicilia. Vi aderirono aristocratici, industriali e sindacalisti; nomi noti come Charles Darwin e il duca di Wellington. Nel 1864, le centinaia di migliaia di persone che attesero il Generale lungo le vie di Londra, costringendo la sua carrozza a percorrere tre miglia in quasi sei ore, rappresentarono una delle più grandi manifestazioni dell’ottocento.

Occorre poi rammentare che il Regno Unito fu il primo Stato a riconoscere il nuovo Regno d’Italia il 30 marzo 1861. Fu poi la volta della Francia, sempre nel marzo 1861, la cui opinione pubblica, a parte i cattolici, era in gran parte ostile ai Borboni. E poi gli Stati Uniti d’America nell’aprile 1861 che seguirono con molto interesse e con profonda simpatia le vicende che riguardavano a lotta per liberarsi dal dispotismo borbonico. La conquista di Palermo da parte di Garibaldi fu acclamata dal ”New York Times” come un grande trionfo.

Il nome di Garibaldi fu da allora accomunato a quello dei grandi della storia americana al punto tale che il Presidente Lincoln gli propose di assumere il comando in un'armata nordista nella guerra di secessione, proposta che Garibaldi respinse, volendo egli avere il comando supremo dell'esercito, cosa che Lincoln non gli poté dare.

Certo non sarebbe bastata l’audacia di Garibaldi per portare a compimento l’impresa dei Mille. Ed infatti il processo che condusse all’unità d’Italia, oltre ad essere ascrivibile alle gesta di “Don Peppino“, fu il frutto di quell’abile tessitura politica che il conte di Cavour, non amato dal Generale a causa del baratto della sua città natale Nizza oltre che della Savoia in cambio dell’aiuto dei Francesi nel 1859, condusse negli anni precedenti, in particolare dalla guerra di Crimea, scoppiata perché Francia, Inghilterra e Turchia, tra loro alleate, intendevano fermare l’espansione dell’Impero russo verso il Mar Nero. Cavour nel 1855 decise d’intervenire, inviando delle truppe del Regno di Sardegna, anche se questa guerra, nel corso della quale i bersaglieri piemontesi si distinsero, sembrava priva di qualsiasi interesse per l’Italia.

Non era così. La guerra di Crimea permise, infatti, al Regno di Sardegna di sedere al tavolo dei vincitori. Nonostante le proteste dell’inviato dell’Austria, al Congresso di pace tenuto a Parigi nel 1856, Cavour non chiese alcun compenso per la partecipazione alla guerra, ma ottenne che una seduta fosse dedicata espressamente a discutere il problema italiano. Cavour ebbe così l’occasione per sostenere pubblicamente che la repressione dei governi assolutisti e la politica dell'Austria erano i veri responsabili del malcontento e delle tentazioni rivoluzionarie che agitavano la penisola italiana, costituendo ciò una possibile minaccia per i governi di tutta Europa.

Il Piemonte ebbe così l'occasione di accreditarsi come soluzione istituzionale moderata al problema della turbolenza politica dell'Italia dell’epoca, guadagnandosi fin d’allora la simpatia di gran parte delle potenze del tempo ed ottenendo un’apertura di credito che poté utilizzare sia nel corso della seconda guerra d’indipendenza del 1859 (alleanza con la Francia) sia, come sopra si diceva, negli eventi correlati alla spedizione dei Mille che portarono alla proclamazione del Regno d’Italia.

Per concludere, se un difetto c’è nella nostra storia risorgimentale, non sta tanto nella sua costruzione, quanto nell’uso strumentale che se ne è fatto a seconda delle convenienze politiche dei regimi/ governi che si sono succeduti dall’unità d’Italia ad oggi. Lo stesso fascismo, al cui nazionalismo becero talvolta viene erroneamente accostato l’ideale risorgimentale, per quanto agli esordi avesse voluto accreditare una sua continuità storica dal Risorgimento alla Grande Guerra, strada facendo fece emergere la sua intrinseca, vera natura, sottolineando fortemente la sua assoluta “ originalità “ rispetto all’epopea risorgimentale. Questa, infatti, fu antitetica al pensiero dominante del Fascismo: liberale la prima, autoritario questo; basata la prima sul principio di nazionalità, vocato il secondo a velleità imperialistiche.

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.143) 7 marzo 2011 16:01

     Fermo restante il valore dell’unità nazionale, di difetti nel nostro risorgimento ce ne sono parecchi. il processo unitario è coinciso con l’avvento del liberalismo e la sostituzione dei regimi assoluti dell’Italia pre unitaria, fatta eccezione per il Piemote, unica monarchia costituzionale. In Inghilterra, Francia, Olanda, Svezia, Danimarca e Norvegia, l’avvento dei regimi liberali è avvenuto con il coinvolgimento degli strati popolari, gli statuti, le costituzioni e le relative istituzioni sono diventate di tutti. Le successive evoluzioni non hanno modificato questo dato, ma al contrario lo hanno rafforzato. In Italia una piccola e rapace borghesia ha rigorosamente tenuto fuori dai processi unitari i ceti popolari, in primo luogo le sterminate masse contadine.Unica eccezione, la Sicilia, dove i contadini con la speranza di ottenere le terre dei latifondisti sono accorse con Garibaldi (chi erano i 30.000 che combatterono sul Volturno?). A fine guerra ottennero solo qualche fucilata. L’analisi di Gramsci dell’alleanza della borghesia del nord con i galantuomini del sud (borghesia agraria) può essere indigesta per i conservatori, ma è la verità. La riforma agraria non ci fu, le masse contadine e anche quelle operaie continuarono a sentirsi estranee alle istituzioni liberal/monarchiche. Il fascismo non rappresentò alcuna rottura rispetto al monopolio politico della borghesia. In questo senso è più corretto considerarlo una forma di continuità con il vecchio regime. Giolitti pensava di unificare gli italiani con il suffragio universale, Mussolini con la retorica nazionalista e con l’aggressività in politica estera.La tesi di Benedetto Croce sul fascismo come parentesi tra la democrazia liberale e quella repubblicana non ha mai avuto gran seguito. E più sensata mi sembra quella di C. Duggan sulla continuità tra regime monarchioco/liberale e fascismo. La rottura rispetto al passato sarebbe potuta avvenire con la Costituzione del ’48, ma né i democristiani, né i comunisti credevano realmente in questa Costituzione. Il PCI fece entrare nella lotta politica le masse proletarie, ma non per inverare i principi della costituzione bensì per realizzare la società socialista.Con la loro ideologia cattolica, i democristiani avevano scarso entusiasmo per la Costituzione e nella lotta al comunismo sacrificarono tutto (sia i principi cattolici che quelli costituzionali) alleandosi con la mafia, praticando un clientelismo sfrenato (e non solo al sud), e la pratica corruttiva divenne strumento ordinario di governo, come pure la strategia della tensione.
    La fine del comunismo e il crollo di" Tangentopoli" potevano essere un altra occasione per porre fine all’estranietà di massa degli italiani dalle proprie istituzioni, ma non fu così. Berlusconi utilizzo il sentimento antipolitico (prima espressione dell’estraneità) e la riproposizione dell’anticomunismo per continuare a gestire il potere secondo le consolidate regole dei precedenti regimi. Corruzione, clientelismo, rapporti tra politica e mafie, rifiuti dei controlli di legalità, ecc. ...
     Come vede dottor Nicotra il modo di come siamo nati ci condiziona ancora. In ogni caso il suo articolo è largamente condivisibile, eccetto la proposizione finale

  • Di Luigi Nicotra (---.---.---.198) 9 marzo 2011 15:24

    Le sue rilfessioni, egregio xxx.xxx.xxx.143, sono molto interessanti e molto c’è di vero in esse. Ma questo, a mio avviso, non sposta i termini della questione sulla grandezza di fondo dell’epopea risorgimentale e della conquista dell’unità del Paese, nonostante tutti i limiti, le brutture e le ralizzazioni incompiute o mai conseguite.
    Due dati di fatto ed altrettanti meriti da attribuire all’unità del Paese:
    1) l’Italia non ebbe la rivoluzione industriale che ebbero altri paesi europei, in primis la Gran Bretagna, fra la fine del 18° e l’inzio del 19° sec., vale a dire quel processo evolutivo da un sistema economico fondamentalmente agricolo ed artigianale ad uno industriale moderno caratterizzato dall’uso di macchinari, azionati da energia meccanica e dall’utilizzo di nuove, per l’epoca, fonti energetiche come, ad es., il carbone. Processo che necessitò, oltre che di favorevoli condizioni di mercato ( il passaggio da un’agricoltura di mera sussistenza ad una finalizzata al profitto ), geografiche ( essere da sempre al centro delle grandi rotte commerciali ), anche di un quadro poitico/iistituzionale consolidato e, quindi, in grado di assecondare e favorire detto processo. Questo avveniva nel Regno Unito. Ebbene, credo che solo grazie all’unificazione nazionale si potè realizzare lo sviluppo industriale italiano. Fu infatti negli ultimi vent’anni del secolo 19° che l’Italia ebbe la sua peculiare rivoluzione industriale nel campo produttivo e delle trasformazioni strutturali diventando, ancorché con grandi difficoltà, un Paese industriale. Tali trasformazioni comportò, da una parte, la creazione di grandi complessi industriali, specie nel nord Italia. Dall’altra, il centro-sud divenne sbocco commerciale dei prodotti e serbatoio di mano d’opera. Furono fenomeni che si stabilizzarono proprio in quel periodo.
    2) L’Italia non ebbe neppure la riforma protestante, vale a dire quel movimento religioso, nato nel 16° secolo, ben prima quindi dell’unità d’Italia, che nato col fine del rinnovamento spirituale della Chiesa e del recupero del rigore morale, ebbe rivoluzionari risvolti politici che contrassegnarono lo sviluppo, oltrre che religioso, culturale economico e politico delle nazioni nelle quali prese piede. La riforma protestante, come noto, fu fortemente avversata dalla Chiesa di Roma la quale vide in essa lo spettro della fine del proprio potere temporale. L’Italia, la propria riforma " protestante " la conseguì grazie ai movimenti risorgimentali ed all’unità del Paese, ottenuta sull’apporto ideale del liberalismo laico, talora anticlericale, grazie al quale vennero sconfitti il Papa Re ed il suo potere temporale.
    Credo che questi due meriti del Risorgimento siano indubitabili. Che poi la storia d’Italia si sia sviluppata sommando conquiste a contraddizioni sociali, politiche e culturali/religiose,mi permetto di dire che questo concerne quell’uso strumentale, di cui parlavo nel mio articolo e del quale rimango convinto, che si è fatto del Risorgimento a seconda delle convenienze polticihe.
    LN

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