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Lavoro: tra feudalfascismo e apartheid

L’annientamento dello stato sociale propagandato come riformismo progressista. Uno dei dati fondamentali, oltre al deficit pubblico, per comprendere la situazione economica reale di un Paese, è il dato concernente il cosiddetto “lavoro autonomo”, ossia, per farla breve, delle partite IVA. Si tratta di un lavoro nel quale di “autonomo” non c’è proprio nulla.

Ex dipendenti licenziati e subito riassunti dalla stessa impresa come collaboratori coordinati continuativi, collaboratori a progetto e simili. Dipendenti di fatto, ma non per legge, i quali hanno tutti gli oneri della dipendenza e nessuno dei diritti sanciti dallo Statuto del Lavoratore che è di fatto non solo aggirato ma del tutto destituito, al pari dei diritti sindacali e di tutti gli altri.

Il rapporto di lavoro che viene qui ad istituirsi è un rapporto che – al di là della legge – non è neppure linguisticamente definibile come tale: infatti uno dei contraenti, il lavoratore, è del tutto vincolato, mentre l’altro, il datore di lavoro, è del tutto sciolto. È il tipo di realtà lavorativa che di fatto re istituisce il capitalismo peggiore, quello manchesteriano.

Per capirci: il capitalismo al quale Adolf Hitler, tramite la mediazione di gente dello stampo di Firestone, si è ispirato nel Mein Kampf. In Italia questa tipologia di lavoro è una delle più massicciamente presenti (26,1%), con una percentuale che in Europa è seconda solo a quella della Grecia (36%).

Oltre un quarto dei nostri lavoratori dunque non sono di fatto riconosciuti come tali. Non si tratta inoltre di lavoratori improduttivi o di lavoratori poco qualificati, al contrario, si tratta di quella fetta di mercato del lavoro alla quale è addossata la maggior parte, anche la più qualificata e qualificante del lavoro, ma che è poi esclusa da una giusta mercede. Si tratta di lavoratori chiamati a coprire quella quantità di lavoro cui poi altri percepiscono i compensi, in un meccanismo di “apartheid” dei lavoratori, e di vero e proprio neo feudalesimo.



È il modello di “lavoro” fatto proprio dalla politica del “Partito della Libertà” (di essere schiavi) e specie dal suo ministro dell’Economia, il quale insieme a tutto il partito ha addirittura coniato per esso un nuovo nome che, almeno lessicalmente, tenta di essere appetibile: “Riformismo”. Dunque quella realtà lavorativa che nega la dignità del lavoratore, lo esclude addirittura – per propria colpa, ovviamente – dallo Statuto del Lavoratore, lo espropria della propria personalità e dei propri diritti, lo immette in una realtà sociale che è la ricostituzione di quella feudal-nazi-fascista si chiama ora “Riformismo” ed è cosa buona e giusta.

Chiudo con tre brevi considerazioni:
a) il sistema così di fatto istituito non è classificabile né come libero, né come mercato;
b) esso si caratterizza per l’abbattimento di ogni merito e la selezione dei peggiori e più incapaci e la deselezione dei migliori;
c) esso distrugge il valore marginale di quella merce che anche il lavoro alla fine è, e così distrugge il mercato. Ma anche questo, per i riformisti progressisti di casa nostra, è cosa buona e giusta al pari dell’annientamento dello stato sociale: Arbeit macht Frei.

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.77) 6 febbraio 2013 11:05

    ce ne è voluto un po ma vedo che ora ci si comincia ad accorgere come gira il mondo del lavoro in Italia.
    Questo e’ il modus operandi della nostra confindustria, impreparata ed incompetente che è la prima causa del declino italiano!!!

    noi eravamo il paese dei Ferrari , Olivetti , Natta ora siamo il paese dei Briatore o Bombassei .

    Questo è il declino!!!

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