Lara Fremder: L’ordine apparente delle cose
«Dottoressa Zweiter?»
«Sono le tre di notte Rachele, cosa c’è?»
«Perché dovrei essermi inventata la storia di Hulda?»
«Forse per uscire anche tu dai campi.»
«Non dica sciocchezze. Io non sono mai stata nei campi.»
«Sicura?»
Questa è la telefonata che l’inquieta Rachele fa in piena notte alla sua psicanalista. Ed è la chiave di volta per la comprensione di tutto ciò che la agita.
Rachele Zwillig fa la guida turistica, spesso controvoglia, a Gerusalemme. Ha superato i quaranta, qualche problema di instabilità, forse, in passato; vive sola e si è un po’ lasciata andare – se il frigo si rompe non lo fa aggiustare, lo usa come scarpiera – ha un padre che non si interessa di lei tanto quanto lei di lui, la madre si è suicidata quando era una bambina, non ha un uomo, neppure occasionale, ma fantastica sul russo (sposato con figli) che frequenta e l’inglese che incontra da guida o forse anche sul poveretto che si crede Gesù. E rifiuta di farsi definire “ebrea” così come rifiuta di farsi ingabbiare in qualsiasi altra forma con cui l’umanità è usa definire l’io, il tu, il noi, il voi. Fuori gabbia si vive bene solo se si ha un’identità ben formata, a tutto tondo. Ma lei, si direbbe, è ancora in cerca.
E in questa ricerca Lara Fremder ci trascina passo dopo passo, entrando nel mondo di Rachele Zwillig un po’ sciatto, un po’ angoscioso, un po’ divertente, un po’ inquietante, un po’ romantico e nello stesso tempo anche un po’ irritante.
Ci trascina perché la scrittura del libro è davvero affascinante. Secca, impietosa, non indulge in inutili orpelli, non si arrampica su improbabili metafore, non eccede mai. Ma ci fa capire che c’è un non detto grosso come una casa in questa donna che non potrebbe vivere lontano dalla città “santa” neppure per un giorno, ma da cui si allontana – volandone via – solo per il tempo necessario per recuperare il tassello fondamentale della sua immersione nel passato.
È forse sulla risoluzione del non detto, legato alle poche fotografie arrivate a lei non si sa da dove, che s’ingarbuglia un po’ anche la scrittura. Diventa più faticosa. Ma non è un’accusa: dopotutto come si può spiegare usando la parola scritta in lucida prosa, che una donna mai stata rinchiusa nei campi non ne sia mai nemmeno uscita? Bisognerebbe forse usare le immagini o la musica o la poesia. O qualche marchingegno, sfumato e impalpabile, capace di comunicare attraverso forme altre, ma non con la parola che cerca di dire quello che ci siamo ormai abituati a definire “l’indicibile”.
È l’angosciosa domanda che tormenta le generazioni ebraiche successive a quelle che dalla Shoah sono state travolte: gli annullati che non possono più parlare, i sopravvissuti, gli scampati, i fuggiti, in ogni caso tutti ineluttabilmente travolti e che forse di parlare non hanno proprio voglia.
Tocca alle generazioni successive, ci chiediamo, “ai figli della Shoah” (ma, temo, anche i nipoti) sopperire a quelli che non hanno saputo fare i conti, del tutto e fino in fondo, con quella epocale catastrofe?
Ma come si possono fare i conti con un tempo che non è stato mai vissuto? Non ne sono stati toccati e tuttavia sono o si sentono pienamente coinvolti. Benché non travolti direttamente, ci sono finiti dentro con tutte le scarpe. Mai entrati nei campi, non ne sono, tuttavia, mai usciti.
Per uscirne hanno una sola possibilità: aprire gli occhi e guardare in quell’abisso. Sapendo che è stato fatto e che potrebbe essere fatto di nuovo e tuttavia prendersi tutto il carico, pesantissimo, di dover vivere la propria vita – “trovare un modo per esistere nel mondo” – adesso che i campi non ci sono più, ma che tuttavia permangono nella loro mente.
Rachele Zwillig, l’ebrea-che-rifiuta-di-definirsi-ebrea, passa attraverso la resa dei conti con la madre stroncata, con il padre assente, con la parente iperattiva e aggressiva, con il tempo che passa e con quello che non è mai passato.
Fino all’epilogo – che non svelerò – dove c’è solo una sedia rovesciata. È rimasto un nulla, un nulla di umano, che è la vera, intima verità degli assassini di un tempo andato. Il nulla dentro gli esseri umani, che li ha resi inumani, è ciò che va visto per poter uscire dai campi in cui non si è mai entrati. Per trovare l’uscita dal tunnel.
Altrimenti si rimane schiacciati in quella terra di mezzo – “penso che la vita e la morte si sfiorano a tal punto che non c’è margine, non c’è spazio per stare solo da una parte” – non si è mai del tutto vivi anche se non si è del tutto morti. Fuori, intanto, si sentono i rumori drammatici di un paese mai pacificato. Il libro, premette l’autrice, è stato scritto prima del 7 ottobre.
Da leggere.
L'ordine apparente delle cose
Lara Fremder, Gabriele Capelli Editore
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