La strage del pane di via Maqueda. Palermo, 19 ottobre 1944
Ci sono avvenimenti che la storia preferisce dimenticare, dimenticare perché i miti sui quali si costruisce una nazione verrebbero meno. La strage di Palermo, di via Maqueda, del 19 ottobre 1944 con ventiquattro morti e centocinquantotto feriti, è stata subito rimossa, troppo imbarazzante per le autorità. La Sicilia con lo sbarco degli Alleati, luglio 1943, era all’attenzione della storia, delle grandi potenze e dei vari interessi internazionali. L’Italia con l’armistizio, firmato con gli anglo-americani a Cassibile l’8 settembre 1943, era divisa in due parti, con due governi.
Nel 1944 in Sicilia la situazione era assai critica, la miseria, la mancanza di beni di prima necessità, i bombardamenti sulle città avevano creato una situazione sociale ad alta tensione. Il malcontento popolare serpeggiava ovunque tra istanze separatiste, autonomiste, richiesta di riforme sociali. Si associavano inoltre i problemi del brigantaggio e della mafia (legittimata dagli americani con l’insediamento di vari soggetti a posizioni di amministratori dei vari comuni).
I cittadini spesso manifestavano la loro esasperazione davanti le sedi istituzionali. Mentre i comandi militari “vigilavano” sull’evolversi degli avvenimenti, sulle manifestazioni di popolo, tanto da diramare una famigerata circolare dove si affermava di “impiegare i reparti dell’esercito in assetto offensivo, senza esitazione, senza preavviso, come se si dovesse procedere contro truppe nemiche”.
Il 19 ottobre un corteo spontaneo si dirigeva verso la Prefettura, all’epoca sita in Piazza Comitini, sede del Prefetto Paolo D’Antoni e dell’Alto Commissario per la Sicilia il democristiano Salvatore Aldisio. La folla si muoveva all’insegna del “pane e pasta per tutti”. All’arrivo apprendevano che sia il Prefetto che l’Alto Commissario erano a Roma. Tutto ciò creava grande delusione e malumore, alcune teste calde prendevano a colpi di pietra e bastoni le saracinesche dei negozi chiusi, provocando forti rumori. Intanto il portone e le finestre della prefettura venivano chiuse, presidiate da una trentina tra carabinieri e agenti di pubblica sicurezza.
In quel momento la più alta carica, il vice-prefetto Giuseppe Pampillonia decideva di non mostrarsi ai manifestanti, di non convocare una rappresentanza, insomma di fare qualcosa affinché la gente si sentisse considerata. Invece, decideva di chiamare i Comandi militari! Non sappiamo se sia stata una scelta autonoma o esecuzione di qualche ordine superiore. Dalla Caserma “Ciro Scianna” più di cinquanta soldati della Divisione Sabaudia, armati di fucile modello 91 e di due bombe a mano (consegnate ad alcuni), comandati dal Tenente Lo Sardo, di origini siciliane, si dirigono verso la prefettura. Ma prima il Tenente si fermava, stranamente, in Questura. Sul posto i militari giungevano e iniziavano a sparare senza preavviso, una scena assurda e bestiale.
L’indomani, il “Giornale di Sicilia” con il titolo asettico: “Luttuosi incidenti a Palermo”, mentre la censura si abbatteva su altri giornali isolani dal tenore degli articoli ben diverso. I comandi militari, tra i quali spiccava il generale Castellano, inviato da Badoglio a trattare con gli Alleati nel 1943, divulgavano la tesi dell’”aggressione ai militari”, della difesa.
Come poteva l’esercito sparare come se si trattasse di truppe nemiche sul popolo?
Singolare la testimonianza dello storico Massimo Gangi che nel 1990 dichiarava in un convegno: “questi soldati erano vestiti con delle uniformi dell’esercito inglese, cin il giubbotto attillato alla vita, ridipinte tra il verde e il nerastro. Su una manica, all’altezza della spalla, avevano appiccato un profili dell’Italia, ritagliato in tela, senza le isole(…). Così come è giusto ricordare l’appello del generale Roatta poco prima dello sbarco Alleato: “Strettamente fiduciosi e fraternamente uniti, voi fieri siciliani e noi militari italiani e germanici delle FF. AA. Sicilia, dimostreremo al nemico che qui non si passa”. Era evidente che negli alti comandi vi era un notevole pregiudizio contro la Sicilia.
Il processo veniva celebrato a Taranto, dopo tre anni, e con un colpo di spugna la Corte dichiarava che “non doversi procedere a carico di tutti gli imputati per essere tutti i delitti estinti da amnistia”. Giustizia era sfatta.
Salvatore Falzone
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