La questione ebraica (di nuovo?!)
Sabato scorso, come ogni sabato da tre mesi, la manifestazione parigina dei GJ, i gilets jaunes transalpini, si è svolta in relativa tranquillità, almeno fino a che qualche manifestante non ha riconosciuto Alain Finkielkraut, filosofo ed opinionista di origini ebraiche noto in Francia per le sue frequenti apparizioni televisive e le sue posizioni politiche.
Ed è scattata un'aggressione verbale riportata in rete da numerosi video.
Forse, come sottolineava lo stesso Finkielkraut intervistato dal Times of Israel (sintetizzato sul sito della comunità ebraica milanese), per «le politiche fallimentari sull’immigrazione che hanno portato a un enorme popolazione musulmana non integratasi nella società francese, tanto da minacciarne la stabilità».
O, forse, per le sue posizioni sul conflitto israelo-palestinese interpretato da un punto di vista filosionista. Non a caso il più esagitato fra gli aggressori è tal Benjamin W. convertito all’islàm più radicale con il nome di Souliman e già noto alle forze dell'ordine.
Come si sa le interpretazioni sul conflitto israelo-palestinese tra la comunità ebraica (con qualche distinguo qui e là) e quella musulmana sono diametralmente opposte. E le posizioni a favore dell’una o dell’altra parte si riflettono ormai da tempo sugli schieramenti politici dei paesi occidentali, con le posizioni più radicali (soprattutto di sinistra, ma anche in certe formazioni della nuova destra) schierate a favore della causa palestinese e quelle più moderate (sia di destra che di sinistra, ma anche qui con qualche distinguo) a favore delle posizioni filoisraeliane. Specchio palese della complessità della questione sulla quale sono poco credibili le posizioni manichee che vedono tutti i torti da una parte e tutte le ragioni dall’altra (e viceversa).
Alla fine, il caso Finkielkraut potrebbe essersi risolto solo in qualche grido di stampo antisionista, o, al contrario, essere invece un altro grave segno di antisemitismo contrassegnato dalla classica offesa di “sporco ebreo” (sale juif) come hanno titolato molti giornali, a partire dal comunicato del portavoce governativo Benjamin Griveaux che ha difeso la sua interpretazione anche in seguito alle contestazioni.
Paradossalmente, dato che la destinataria non risulta essere ebrea, la questione si è ripetuta quasi identica il giorno dopo, durante il “XIV atto” della protesta, quando la rappresentante “moderata” dei GJ, Ingrid Levavasseur, è stata circondata, spintonata, insultata e alla fine espulsa dal corteo da alcuni esponenti radicali del movimento stesso. Anche in questo caso, una delle offese rivolte alla Levavasseur (come lei stessa ha twittato) sarebbe stato il classico “sporca ebrea” (sale juive). Salvo poi, smentire tutto con un altro tweet in cui sostiene che l’offesa sembra essere stata sessista (“sporca puttana”, sale pute) piuttosto che antisemita (anche se poi qualcuno insiste sulla prima versione).
La querelle si è alla fine aggrovigliata senza via d’uscita, con siti e testate varie (di nuovo, sia di destra che di sinistra) a sostenere, valutando i video che girano in rete, che “no, non si sente sale juif o sale juive” come fa Sputnik e altre a sostenere che “sì, si sente!”.
Sulla frase incriminata si è focalizzata una forma un po' ossessiva di "caccia alla frase" da parte di politici e media, come se l'antisemitismo fosse definibile come tale solo nel caso che venga detto esplicitamente "sporco ebreo", altrimenti no.
In realtà su questa frase si gioca il sottile, ma un po' ambiguo, distinguo che interessa a molti. Se si sente siamo nel campo, esplicito quanto esecrabile, del razzismo antisemita e questa versione è sostenuta da chi ha interesse a strumentalizzare la vicenda per delegittimare il movimento dei GJ. Se invece non si sente, viene sostenuto, allora si è "solo" in quello dell’antisionismo e del legittimo diritto di critica verso le politiche israeliane e i suoi supporter. Non è cosa di poco conto anche considerando che l’antisemitismo in Francia è un reato, non una libera opinione.
Ma forse sarebbe necessario ricordare anche che certe frasi gridate a Parigi contro Finkielkraut - «La Francia è nostra, torna a casa tua, torna a Tel Aviv, il popolo siamo noi» - sintetizzano in poche parole quello che Leggi razziali stabilirono giuridicamente negli anni ’30: gli ebrei non sarebbero considerati cittadini dei paesi in cui vivono, non farebbero parte di quei popoli, pur con la loro diversità culturale o religiosa, ma sarebbero solo un corpo estraneo alla nazione in quanto “fedeli” a un’altra nazione, a un altro popolo, a un’altra cultura.
Quindi gente che deve tornare “a casa sua”, gente "che ha rotto i co...i con la Shoah", come affermato da Vittorio Feltri recentemente o gente che non deve impicciarsi degli affari del governo dei “veri cittadini”, come ricordava Maria Giovanna Maglie poche settimane fa.
Sono le stesse accuse che gli xenofobi sovranisti di ogni latitudine rivolgono agli immigrati ed è espressione indiscutibilmente razzista. Nel caso Finkielkraut diventa specificamente antisemita, anche se viene presentata come semplice espressione di antisionismo. Ma questo banale ragionamento sfugge in chi vuole sentire per forza l'esplicito "sporco ebreo" per parlare di antisemitismo, altrimenti rifiuta di riconoscerlo.
Le stesse tematiche riguardano, al di là della Manica, il Labour di Jeremy Corbyn, secondo quanto riporta Internazionale, testata certo non tenera con le politiche israeliane: «come in Francia, anche nel Regno Unito una parte della sinistra ha un problema con l’antisemitismo e rifiuta di riconoscerlo, varcando il confine tra la critica nei confronti della politica israeliana e i tratti dell’antisemitismo classico».
Quello che è assodato è che negli ultimi quindici anni c’è stato un aumento esponenziale degli atti espliciti di antisemitismo nel paese transalpino fino a un impressionante +78% nel 2018, con ben undici vittime ebree, di cui si parla poco o anche nulla, come in Italia.
La causa più probabile sembrerebbe individuabile nella saldatura tra lo storico antisemitismo dell'estrema destra neonazista, l'antisionismo di estrema sinistra e la componente islamica di ampie frange del mondo immigrato, molto ambigua in termini razziali come dimostrano gli attentati contro civili francesi colpevoli solo di appartenere alla comunità ebraica.
E la saldatura si alimenta anche del tanto, troppo, complottismo: agli ebrei in quanto tali si addebitano colpe vere e presunte, talvolta motivate o anche del tutto campate in aria, fondate su elementi di realtà o derivate dalle dietrologie più becere. A partire dal mito degli ebrei "avvertiti" dell'attacco alle Twin Towers, alla riproposizione pervasiva del complotto giudaico-massonico, dalla presunta onnipotenza dei banchieri ebrei alla "riscoperta" dei falsi Protocolli dei Savi di Sion del senatore Lannutti (M5S) fino al linciaggio globale del magnate e filantropo ungherese George Soros, anche lui di origini ebraiche.
Forse perché, proprio come accadde dopo l’epoca dei Lumi che provocò l’apertura dei ghetti e l'inserimento degli ebrei nella società europea, l’ebraismo viene identificato con la modernità internazionalista ritenuta “nemica dei popoli”. Oggi, forse, con la modernità liberale ed europeista contro cui si saldano populisti e sovranisti, estrema destra e sinistra radicale.
La “questione ebraica”, ritenuta per qualche decennio un retaggio di tempi oscuri, sembra tornare di nuovo di attualità e il rifiuto di riconoscere il problema non sembra promettere nulla di buono.
Probabilmente sarà necessario tornare ancora su questo argomento.
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