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 Home page > Tribuna Libera > L’atteggiamento mafioso che rovina la Sicilia e il paese intero

L’atteggiamento mafioso che rovina la Sicilia e il paese intero

Ho trascorso molte estati in Sicilia. Si partiva come raccontano i comici di oggi, con l’auto carica come se non avesse dovuto esserci un ritorno. In fondo alla Renault Ventuno di famiglia, le valige e i frigoriferi portatili di diverse dimensioni premevano alle mie spalle. Stesa sui due sedili, aspettavo con ansia che comparisse presto il mare, che Scilla si proiettasse con il suo mitologico profilo davanti ai miei occhi emozionati di bambina e adolescente. Lungo il viatico di cantieri a cielo aperto, nelle pause dalla lettura, tornavo sul volto esausto dei lavoratori, dimenticati nella polvere nebbiosa, sotto il bestiale sole degli inizi d’agosto. Con le loro bandierine indicavano la via ai viaggiatori distratti, a quelli esterrefatti, a quelli spaventati, a quelli entusiasti, passando di tanto in tanto il lembo della manica arancione della tuta sulla fronte sudata.

Villa San Giovanni e un sospiro di sollievo, poi il traghetto: l’odore del fritto degli arancini, qualche foto tra risate ed eccitazione, la brezza del mare che scivolava via sotto il naso, sotto i talloni alti, come quelli del primo bacio, per vedere infrangersi le piccole onde contro la zattera. Nel piccolo paese dove restavamo per l’intero mese, le giornate trascorrevano tra lunghe passeggiate sulla spiaggia, il bagno delle sei del pomeriggio sotto un sole rilassato sulla schiena delle montagne, il gelato dopo cena nella gelateria del posto. Dall’unica cabina a gettoni, ben meno turistica di quelle inglesi e senza illuminazione, chiamavo le mie amiche, lamentando solamente la noia di quel luogo. Talvolta, mia madre mi spediva a comprare qualcosa nel piccolo alimentare ad angolo, del pane o poco più, non ricordo bene. Capitava spesso che il resto fosse di pochi spiccioli, le cinquecento lire di una volta o anche meno. Allora la signora mi proponeva un baratto che a quei tempi mi pareva piuttosto interessante: caramelle al posto dei soldi. Qualche volta accettavo lo scambio, altre no: quelle monete servivano per chiamare dalla cabina, come avrei fatto senza? Avrei dovuto scavare nelle tasche profonde dei pantaloni del babbo, senza che nessuno se ne accorgesse. All’ora di pranzo, bianca di salsedine, asciugamano in spalla e zoccoletti ai piedi, per la via verso casa mi domandavo come facessero le anziane signore merlettate a sfidare il sole cocente con i loro abiti neri, lunghi fino alle caviglie, stretti fino ai polsi, chiusi alla gola, il velo sul capo, il rosario tra le mani, semplici mocassini ai piedi, sedute sulle seggioline di paglia appena fuori dalle case basse e bianche da cui s’intravedeva il tavolo in legno della cucina. Aggrottavo le sopracciglia nei pochi istanti in cui, con il solo costume, affaticata, passavo loro davanti. Lì, su quelle spiagge, quando il mare in tempesta tirava via furente e infastidito la sua coperta di ciniglia blu, mi sembrava che anche il tempo fosse stato inghiottito nel pugno chiuso del mare. Io restavo lì. Fuggivo nello spazio disperso dell’ultimo orizzonte di luce, lungo la scala dorata della luna che mi portava dritta fino alla prima stella.

Nella poesia che passo dopo passo avevo costruito non c’era posto per la mafia. Eppure esisteva, palesandosi senza troppa gentilezza per le vie di paesi e città. Esisteva nella misura in cui irrompeva nella vita garbata e faticata dei siciliani onesti, alimentando una lotta rabbiosa e instancabile di quanti non vi hanno ceduto. D’un tratto abbiamo scoperto che la mafia aveva valicato i confini dell’isola, conquistato con nomi diversi le regioni d’Italia bussando alle porte, appena socchiuse, della Lombardia. Di recente abbiamo inteso l’espansione internazionale dei suoi traffici, la sua ombra sempre più consistente sul parlamento italiano. Oggi, l’Italia è la Salerno-Reggio Calabria: una voragine distruttiva che trangugia sogni, soldi, speranze, prospettive. La mafia delle lupare è quanto di più ingenuo si potesse sperare da una tenia che da decenni costruisce gallerie sotterranee nell’intestino dell’Italia. Oggi la mafia è un atteggiamento, un comportamento, un modo di fare e d’intendere lo Stato, il senso civico del cittadino. È quel provincialismo che tende ai favoritismi e al clientelarismo, che umilia merito e capacità.

La mafia, quella che ha ucciso Falcone e Borsellino, strangola le nuove generazioni negando loro la possibilità, anche una sola possibilità, di costruire il futuro. Abbonda la mafia culturale, che affoga nuovi intellettuali, giovani artisti, aspiranti critici, interessanti musicisti. È mafia quest’aria che sa di muffa, quest’aria stantia di stanza chiusa, dove si decide il da farsi, dove si crocifigge il Gesù Cristo di turno, dove si ammazza di nuovo e altre mille volte Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa. È il non rispettare le regole, scavalcando la fila alle Poste, non aspettando il rosso di un semaforo, evadendo le tasse, gettando una carta sporca per la strada.

Mafioso è l’atteggiamento dei disonesti e dei “male educati”, di quanti calpestano la dignità della “cosa pubblica” per occuparsi delle “proprie cose”, di quanti umiliano il lavoro semplice di molti con l’arma subdola del ricatto. Non è sinonimo di mafioso “siciliano”, “calabrese”, “napoletano”, “italiano”. Non è sinonimo dell’italiano che resta in fila ingannando il tempo leggendo una rivista, che aspetta che scatti il verde per inserire la prima, che si “libera” dalle mafie, che fa la raccolta differenziata, che promuove la cultura, che aiuta chi è in difficoltà, che difende i propri diritti e continua a sperare. Il garbo e la nobiltà del popolo italiano tutto intero non meritano di essere associati alla parola “mafia”. Alla parola “mafia” associo i nomi di Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Salvatore Cuffaro, Giulio Andreotti. Alla parola “mafia” associo il parlamento. Alla parola “mafia” associo chiunque avalli piccoli comportamenti disonesti che legittimano i traffici economici e politici della criminalità organizzata. La mafia non ha confini geografici. La mafia non ha vincoli morali. La mafia ha tutti i colori politici. La mafia risponde a tutte le religioni. La mafia ha violentato l’Italia nei suoi luoghi di potere, tra le poltrone bordeaux del parlamento, nelle camere di palazzo Chigi, tra le righe di leggi che poco conosciamo. La mafia è quel respiro trattenuto, sperando che si tratti dell’ultimo schiaffo, a cui ne segue uno sempre più violento. L’onestà è il suo contrario. E ha il volto dei minatori del Sulcis, dei giovani universitari, del movimento No-Tav, dei No-Global di Genova, degli insegnanti precari, dei lavoratori, dei colletti bianchi. Ha il volto severo degli italiani onesti. 

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