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L’altra faccia della globalizzazione

Per qualche decennio la parola “globalizzazione” è stata in generale nei più sinonimo di sviluppo e concatenazione delle economie a vantaggio di una sempre maggiore stabilità globale. Molte dogane sono state abbattute, unioni monetarie fatte, accordi commerciali con Paesi, prima inenarrabili nemici, sono stati siglati; galeotto, in tutto ciò, fu il commercio globale.

In parecchi per molti anni ne abbiamo raccolto i frutti: merci e beni, prima con costi elevatissimi, sono stati alla portata di tutti; un esempio su tutti: i prodotti del gigante americano Apple. Ma la filiera è lunga e piena di contraddizioni. In primis, è ormai incominciato da tempo ad emergere il lato oscuro di ciò che muove la schiera delle multinazionali che fanno della globalizzazione il loro cavallo di battaglia: la totale inadeguatezza di queste corporazioni nel fondare insieme alla politica un modello economico planetario stabile e avulso da leggi unicamente legate al profitto e alla sola produzione ed al solo conseguente scambio di beni.

Il risultato di ciò, da quello che sta emergendo sui vari fronti, è che, anziché avere sviluppo e progresso per tutta la civiltà umana in genere, si abbia, in molti casi, anche l'esatto contrario, ossia la povertà e la precarietà dei più, e la penuria - quando non il completo o parziale abbattimento - di diritti legati al mondo del lavoro; tutte queste condizioni son sempre più stabilmente diffuse, in modo universale, in tutto il globo. In più, dove si perdono diritti, è difficile poi riacquistarli. Altro che progresso dell'umanità!

Per rendere efficace, quanto lapalissiana, la nostra tesi ci rifaremo ad un evento sconvolgente recente che, come possiamo vedere, è già stato vergognosamente bypassato, in larga parte, dai grandi network internazionali e nazionali, giacché si è esaurito lo shock dell'appeal commerciale della notizia: la catastrofe del Rana Plaza.

Il modo banale ed insufficiente, visto il numero di vittime, in cui è stata e viene ancora trattata la notizia svela una realtà vergognosa; quest'ultima, pone sotto processo il comportamento etico di tutto il sistema mediatico mondiale, occidentale soprattutto. Ciò la dice lunga sul reale spirito di questa globalizzazione - e su ciò che essa sia o rappresenti - circa la quale i Media ne sono il megafono e il messaggero.

A questo punto sorge una domanda che in futuro potrebbe aprire qualche discussione di carattere socio-psicologico e storico.

Che la globalizzazione dopotutto e sotto alcuni aspetti sia, nello spirito quanto nella sua subcultura inconscia, solo una  continuazione economica nel nostro arco spazio-temporale del colonialismo più imperialista di fine Ottocento e primo Novecento?

Ad ogni modo, un paio di settimane fa, a Dacca, capitale del Bangladesh, un edificio di otto piani, - il Rana plaza, appunto - che ospitava un' enorme fabbrica tessile multireparto, con dentro qualche migliaio di lavoratori, addetti e avventori, è collassato lasciando sotto le macerie, morti schiacciati, oltre 912 persone, per lo più lavoratori - ma il numero delle vittime è destinato ancora a crescere, giacché ancora si scava tra le macerie. Il crollo non è stato proprio un caso del destino, ma una catastrofe provocata dalla crapula e dall'avidità di imprenditori locali senza scrupoli ingaggiati da multinazionali straniere tra i quali anche il prestigioso e "costoso" marchio italiano Benetton.

Il crollo è stato provocato dalla completa mancanza di misure di sicurezza e dal peso dei tre piani abusivi degli otto piani del palazzo, complici anche le vibrazioni di migliaia di macchine da cucire insieme a quelle di quattro enormi generatori installati sul tetto. Tutti gli operai della palazzina lavoravano per produzioni ad ordini ascrivibili a grandi gruppi tessili occidentali, grandi firme che fanno pagare i loro capi non certo a prezzo basso. Il prezzo di produzione invece è parecchio basso; per esempio, quei poveracci che ci hanno lasciato le penne, così come quelli che rimarranno senza lavoro a causa della tragica scomparsa del loro posto di lavoro, guadagnavano 38 dollari al mese; certo, il costo della vita non è quello di New York o Milano, ma, anche senza fare grosse indagini circa lo standard living, il tutto suona come un'enorme fonte di sfruttamento e moderno schiavismo, a vantaggio del finale profitto dei grandi “alveari alieni multinazionali”.

La colpa, dunque, è sì ascrivibile alle multinazionali, complici però di governi accondiscendenti e collusi con gli interessi delle corporazioni globali; e c'è anche da scommetterci che sotto ci sia anche una grande rete di corruzione in barba ad un'enorme quantità di carte costituzionali e fondamenti del diritto fondante della civiltà occidentale. “Occidentale”, certo, ma non stiamo certo parlando di occidentali! È anche questo il punto! In Occidente, infatti, se una mosca defeca sulla scrivania del presidente Napolitano e colleghi, tutta la stampa si butta a capofitto nella sensazionale notizia, qui, le "mosche" sacrificabili sono esseri umani, dove l'umanità è solo un fattore mediatico, il resto per i più, poi, è noia!

Che pena!

Non conta nulla che gli operai cinesi, e non solo, della Apple e affini, che produce tutti i suoi apparecchietti in Asia, ogni tanto, alienati dalle condizioni e dai ritmi di lavoro, nonché angariati sia dai loro caporali che dai loro regimi, ci lascino le penne per suicidio; non conta altrettanto un'esimia cippa che bambini in tenera età lavorino dodici e più ore al giorno per produrre e cucire palloni di cuoio per coetanei figli di un dio maggiore; non conterà a breve altrettanto niente il fatto che quasi mille persone siano morte mentre cucivano capi di vestiario destinati ai mercati occidentali a prezzi stracciati, ma non altrettanto stracciati quanto i loro diritti, mai lontanamente acquisiti; ergo, non devono preoccuparsi neanche di perderli, a differenza di altri.

Apriamo ora una breve indicativa parentesi. Tutto ciò che le multinazionali stanno costruendo in Paesi in via di sviluppo e nelle cosiddette "economie emergenti", delocalizzando ivi, togliendo inevitabilmente lavoro agli operai delle loro patrie di origine e non, sottraendo Pil - sotto molti aspetti - ai Paesi da dove esse muovono, ha un prezzo sociale enorme, non tanto perché la cosa di per sé sia errata, ma lo è il fatto che essa avvenga senza regole, che tengano in dovuta considerazione i diritti di tutti i lavoratori del globo tout court in modo ovunque uguale in linee generali. Manca una legislazione mondiale - o meglio, internazionale - specifica volta a creare una sorta di "Carta universale e comune dei diritti del lavoratore".

Ma qui stiamo parlando di fanta socio-politica!

In primis, in Italia, che vede la dèbacle più completa proprio nel campo del Diritto del lavoro, come la Legge Biagi e la riforma dell'articolo diciotto insegnano.

In secundiis, in un'Europa unita solo per un quarto; ossia solo commercialmente e per alcune "faccenducce" economiche care alle lobby nazionali che ne influenzano o controllano le economie e le politiche dei Paesi membri.

E, dulcis in fundo, in un mondo in cui i più alti vertici delle organizzazioni mondiali, tra cui l'ONU, contano quanto il due di picche, specie quando si parla di aiuti e politiche dei paesi poveri ed in via di sviluppo. 

Parlare dunque di un'ipotetica carta comune mondiale del lavoratore potrebbe sembrare un'assurdità, ma in un mondo globalizzato, paradossalmente è proprio la "globalizzazione" - nel vero senso della parola - del Diritto tout court, anche quello del lavoro, che manca, ricordando che "ubi Ius ibi societas".

Se c'è un pensiero umanistico nonché "umano", ne i cardini portanti della globalizzazione, non si può più prescindere dall'idea che i "diritti" dell'uomo tout court, non solo dell' homo oeconomicus, siano la base dell'economia, e non viceversa.

Altrimenti, qualora non ci fosse - ed in effetti, de facto, non c'è - dovrebbe essere tutto da ripensare e da rifondare.

In più, oltre quanto qui abbiamo affermato, un altro grande vulnus sta inesorabilmente nell'aver affidato il modello globale esclusivamente a governi e Lobby mossi non dal Bene comune, ma dal bene particolare delle loro proprie legacy.

Queste enormi tragedie, tra l'altro di gente meno fortunata di noi altri, mostrano che siamo arrivati
ad una soglia: la pubblica tolleranza verso quanto sta ormai avvenendo deve esser in allarme, poiché lo sviluppo non deve più prescindere dalla perdita di diritti e benessere di nessuno, ma bensì da una crescita comune globale. Non deve passare affatto l'idea che per il fantomatico benessere generale delle società dei Paesi emergenti – che forse arriverà solo per poche élite, se si continua con questo modello – debba decrescere il livello socio-economico delle società – specie dei ceti medio-bassi - dei Paesi ricchi, ma bensì il contrario.

Infatti, sono le società mondiali tutte che dovrebbero aspirare a migliori modelli di sviluppo socio-economico, perfino superiori a quelli raggiunti dalle società occidentali, su tutti i fronti, da quello socio-politico a quello tecnologico, per finire, non in ultima istanza, a quello ambientale.

Ergo, la prima base di ciò dovrebbe essere improcrastinabilmente la creazione, l' approvazione e la conseguente applicazione tassativa e globale di un Corpus mondiale del Diritto del lavoro tout court, ben oltre quello relativo alla sola produzione e alla unica circolazione delle merci e dei beni prodotti, importati o esportati che siano.

È altresì auspicabile che non faccia la fine del primo articolo della Costituzione del Bel Paese, né tantomeno quella dell'esaustiva quanto largamente inapplicata Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Certo, la strada da percorrere è lunga e tortuosa, ma non del tutto impercorribile.

I commenti più votati

  • Di pint74 (---.---.---.37) 10 maggio 2013 14:04
    pint74

    Analisi più che buona.Bell’articolo.

    L’unica cosa che non condivido è l’inizio dell’articolo:
    Per qualche decennio la parola “globalizzazione” è stata in generale nei più sinonimo di sviluppo e concatenazione delle economie a vantaggio di una sempre maggiore stabilità globale.

    Guardando la realtà di questo mondo doveva già essere chiaro che il sinonimo di globalizzazione era ben altro già decenni fà...L’idea del profitto sopra ogni cosa e persona era ben radicato da molto..La colpa,oltre che dei governi,è anche nostra se si è arrivati a questo punto dove globalizzazione è ormai,a mio parere,sinonimo di sfruttamento globale di risorse cose e persone a beneficio del profitto di pochi.

Commenti all'articolo

  • Di pint74 (---.---.---.37) 10 maggio 2013 14:04
    pint74

    Analisi più che buona.Bell’articolo.

    L’unica cosa che non condivido è l’inizio dell’articolo:
    Per qualche decennio la parola “globalizzazione” è stata in generale nei più sinonimo di sviluppo e concatenazione delle economie a vantaggio di una sempre maggiore stabilità globale.

    Guardando la realtà di questo mondo doveva già essere chiaro che il sinonimo di globalizzazione era ben altro già decenni fà...L’idea del profitto sopra ogni cosa e persona era ben radicato da molto..La colpa,oltre che dei governi,è anche nostra se si è arrivati a questo punto dove globalizzazione è ormai,a mio parere,sinonimo di sfruttamento globale di risorse cose e persone a beneficio del profitto di pochi.

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