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(In)ter(per)culturando: ’Psicologia del male’ e alcune annotazioni - ultima parte

La prima parte qui.

Altro scenario, altra situazione borderline che abbraccia il male.

Nell’aprile 2004 i mass media si occuparono ossessivamente di ciò che pareva accaduto nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Il rapporto, stilato successivamente, e riferendosi agli ultimi mesi del 2003, ha descritto prigionieri sodomizzati, percossi con ogni oggetto a disposizione, umiliazioni sessuali di ogni genere (alcune informazioni su wikipedia). Ma anche un esperimento, svoltosi presso un carcere di Stanford nel 1971 e monitorato (tra gli altri) da Zimbaldo. Un esperimento dai contorni morbosi, disperati. Probabilmente riprodotto anche in pellicole cinematografiche (il senso dell’esperimento, non la rivisitazione fedele di ciò che accadde nel’71). Deindividuazione. Deumanizzazione. Conformismo. Insidie di un ruolo. E’ attraverso l’analisi di questi agenti destabilizzanti, distruttivi, che Bocchiaro approfondisce questi contesti estremi, ne propone in parte i retroscena, gli agenti scatenanti, aggravanti. Fino a svelare come possa diventare naturale, quasi obbligatorio, il diventare prigionieri di un ruolo da carcerieri che si era all’inizio.

Quelle di Bocchiaro, sono evidentemente teorie che possono apparire ‘di comodo’. In un certo senso è come potersi tenere una sorta di ‘cartellino rosso’ in tasca, da esibire all’occorrenza, per evitare espulsioni sociali. Ero io ma in quel momento quel dato fattore (o più d’uno) mi hanno spinto verso, mi hanno reso più vulnerabile, fragile, incapace di reagire alla situazione se non entro il male.

Le conclusioni dell’autore stesso, tendono a ricongiungere i concetti originali: bene-giusto, male-sbagliato. C’è comunque la necessità di riconoscere nelle azioni umane una matrice positiva o negativa, poli opposti in coincidenti – forse - che pur mescolandosi non generano mai un amalgama compatta, uniforme.

Le persone che diventano perpetratori di cattive azioni sono direttamente comparabili a quelle che diventano perpetratori di azioni eroiche, in quanto sono soltanto persone comuni, nella media. La banalità del male ha molto in comune con la banalità dell’eroismo. Né l’attributo è la diretta conseguenza di tendenze disposizionali uniche; non esistono speciali attributi interiori né della patologia né della bontà che risiedono nella psiche umana o nel genoma umano. Entrambe le condizioni emergono in particolari condizioni, in particolari circostanze, quando le forze situazionali svolgono un ruolo determinante nell’indurre singoli individui a varcare la frontiera decisionale fra inerzia e azione (citazione da ‘The lucifer effect’ di P.Zimbardo, Random House, New York 2007).
(pag.126)

Bocchiaro tenta un riequilibro dei sistema, a mio avviso.
Tenta di impedire l’inspessimento di dinamiche fallaci, obsolete che vedono nel male occhi precisi, riconoscibili e luoghi comuni. Ma tenta altrettanto tenacemente di riportare la mente alla ragione, alla lucida consapevolezza, al ‘io potrei, se’. E in quel ‘se’ si celano dinamiche complesse, anche questo è parte della logica. In quel ‘se’ c’è l’accettazione di fattori ‘aggravanti’. Di un qualcosa che subentra e spinge, preme, verso il Male. Nella speranza (questo mi sembra di sentire nelle parole di Bocchiaro) che sapendo ciò che si può arrivare a fare, nel Male, questo sapere diventi spinta verso il Bene. Diventi lucido rifiuto, davanti a quegli stessi fattori.

C’è poi un’altra parte delle teorie di Bocchiaro che si rifanno alla distinzione da ciò che si è, e ciò che si fa. In altre parole: ciò che siamo non è condannabile, analizzabile in pieno, comprensibile anche. Mentre le azioni che compiamo, le scelte, possono diventare oggetto di critiche, condanne o giudizi. Perché le azioni (se non deformate o confuse dall’esterno) dovrebbero essere univoche.

… condannarne la condotta è quantomeno doveroso. Ciò non implica però un giudizio morale sulla persona: l’essere umano va necessariamente scisso dalle azioni di cui si rende responsabile, e solo su queste ultime è legittimo dibattere ed esprimere giudizi. Mescolare i due livelli – come fanno Chiesa e giurisprudenza – aggiungerebbe immoralità su immoralità.
(pag.120)

Che evidentemente contrasta con la teoria ‘io sono ciò che faccio’. Sebbene le responsabilità sono fatte di carne e sangue. Sono materiali. Non è possibile ad esempio, multare qualcuno per un’intenzione (che comunque è in lui) ma la trasgressione al codice della strada, oggettivamente o abbastanza oggettivamente rilevata, sì.

Bocchiaro insomma non assolve. Ma neanche condanna in toto. Bocchiaro tenta di invertire rassicurazioni. Che non costituisce assoluzione per morti causate, sofferenze inflitte; che non è alleggerimento da colpa. Piuttosto c’è l’intenzione (basata su un approccio scientifico, di analisi delle reazioni senza preconcetti) di guardare alla natura umana nuda, evitando favole o accomodamenti. Il male è in noi, è parte dell’essere. Del corpo. Il male si può scegliere. Ma può diventare dinamica sotterranea che inchioda, attraverso pressioni esterne che limano la libertà di scelta, che deformano la realtà.

Negli anni, mi pare intensificando i ritmi e gli sforzi, la cronaca nera italiana si è infittita di morti improvvise, violente, omicidi, suicidi, fatti qualificati come ‘inspiegabili’. E immancabilmente il valzer di interviste e trasmissioni ‘di approfondimento’ hanno mostrato volti di parenti, amici, conoscenti, vicini che cantilenavano nenie smarrite eppure rassicuranti come “erano persone tranquille, gente per bene, mai un urlo, uno sgarro, cordiali ed educati”. Negli anni questi accadimenti finiti nelle cronache nere nazionali o relegate a meri riscontri locali, sono state etichettate come ‘follie’, colpi di testa entro cui rintracciare qualcosa che non andava, che è esploso all’improvviso, un male radicato e nascosto, tarli subdoli. Qualsiasi cosa che potesse distinguere quelle persone dagli altri. Da chi si è ritrovato a leggere quotidiani o fissare schermi con le pantofole e i piatti fumanti davanti al naso, tra titoli-vuoti pugni in faccia e analisi superficiali riprendendo esterni di abitazioni, interni di scene dei delitti con annessi cartellini identificativi fino ai famosi plastici. Tutto questo è successo. Succede ancora.
Ma mentre leggevo questo saggio qualcosa, nell’ingranaggio, si è dis-inceppato. Qualcosa che già sentivo falso, depistante, blablabla da in-stupidimento di massa, anestesia generale anti-logiche.

Mi sono tornati in mente alcuni ragionamenti-analisi sopra esposti, anche alcuni giorni fa (inizio ottobre 2009) quando percorrendo una strada di periferia ho visto (assieme ad altri) una donna anziana raggomitolata su un ciglio, a ridosso di un vecchio canale. Visto non è il termine esatto. Da lontano, percorrendo la strada, pareva un grumo di tessuti, pezzame abbandonato per terra. Quando il veicolo davanti a me ha iniziato a frenare, rallentando a mia volta ho visto distintamente un ciuffo di capelli bianchi. Fermi poco lontano (io, il veicolo davanti e quello dietro), alcune automobili ci hanno superato accelerando, altri si sono accostati per poi ripartire dopo poco. Da uno specchietto retrovisore ho visto il conducente del mezzo dietro di me, fermatosi accanto alla donna a terra, alzare le braccia, richiamare l’attenzione. Nel frattempo il conducente del mezzo davanti a me, che per primo ha frenato, è sceso correndo verso il ciglio della strada. In quel momento ho deciso. Cosa fare. Ma la scelta non era così scontata o ovvia come potrebbe sembrare. Ero sola in macchina, dovevo andare a prendere mio figlio alla materna (gli orari non sono elastici evidentemente). Non avevo visto nulla di ciò che poteva o non poteva essere accaduto alla donna a terra. Sono scesa. Le ho tenuto la testa, parlato per quel poco che riuscivo, carezzata in attesa dell’ambulanza. I soccorsi erano già stati chiamati, qualcuno stava bloccando le corsie per favorirne il passaggio. Il mio intervento non era necessario, decisivo tanto meno tempestivo. Ma al momento di scegliere se ripartire o scendere, non lo sapevo. E non lo riporto qui per la necessità di farmi catalogare nel bene o nel male. Sono stata entro entrambi, in realtà. Perché avrei potuto scendere subito, dopo aver accostato, senza aspettare di vedere ciò che mi accadeva attorno (chi stava, chi accelerava…). Da dove avevo fermato la macchina non vedevo nulla. Sapevo solo che erano capelli quelli che avevo visto. Poteva essere già morta. O sanguinante. Potevano subentrare diverse variabili, soggettive.

Ci ho sentito una certa pressione. Da masse. La strada era piena di macchine, in un senso o nell’altro di marcia. Proprio piena. Avrei potuto non fare nulla. Oltre tutto non avevo visto quasi nulla. In quel quasi credo abbia pesato l’ago della bilancia. Non abbastanza da mollare tutto subito e correre da lei fregandomene di qualsiasi implicazione o variabile.
Rientrando ho pensato che poteva benissimo essere uno degli esperimenti descritti da Bocchiaro.Situazione imprevista, improvvisa, non proprio estrema ma abbastanza inusuale per una periferia sonnecchiante della piana bassa. Ero stanca, dunque non in condizioni di riflessi, logica e attenzione, mediamente ottimali. Avevo i tempi stretti. Ed ero sola in macchina. Era anche pieno giorno, la strada era trafficata, e fortunatamente altre due persone si erano fermate o lo stavano facendo. Ma se non lo avesse fatto nessuno? Se attorno a me il ciuffo di capelli fosse stata l’unica ‘cosa fuori posto’?

La risposta non la conosco.

Ma la temo.
E rientrando mi sono sentita bene e male.

 

Nello scaffale

’Psicologia del male’ di Piero Bocchiaro, prefazione di P.Zimbardo, Laterza, 2009, seconda edizione 2010.

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