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(In)ter(per)culturando: ’Psicologia del male’ e alcune annotazioni - parte I

Psicologia del male’ di Piero Bocchiaro con prefazione di Phil Zimbardo è un saggio che si tende, flette il linguaggio tecnico con quello più ‘popolare’, tenta avvicinamenti oltre le logiche accademiche ‘per pochi’.

Piero Bocchiaro, palermitano nato nel ’72 attualmente opera alla Vrije Universiteit di Amsterdam. Phil Zimbardo nato a New York nel ’33, psicologo statunitense, nella prefazione inquadra direttamente, senza giri di parole, il cuore pulsante delle teorie di Bocchiaro:

Sin dalle prime pagine del libro emerge la concezione di un individuo in grado di agire in maniera estremamente crudele se posto in circostanze insolite ed estreme. Ci rifiutiamo di credere che possa essere così, e come pronta risposta utilizziamo un armamentario di meccanismi di difesa:«Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile», diceva lo scrittore francese David Rousset. Vogliamo sentirci al sicuro, e così arriviamo a credere davvero che noi non siamo in grado di commettere azioni distruttive o brutali.
(pag.10)

Indubbiamente il centro della questione è proprio questo: si è Bene o Male? O lo si può diventare? Poi, è un diventare Bene o Male duraturo, definitivo? Oppure può essere parentesi? Se non si è – condizione quasi genetica, di nascita – piuttosto è un assorbire o potenziare, chi o cosa stimola, induce, facilita le dinamiche che spingono verso (il Bene o il Male)?

Il saggio affonda in analisi, esperimenti, logiche che si concentrano sul Male, ovvero quella dinamica più temuta, celata, negata, condannata. Ovviamente il rovescio della medaglia, appena accennato sul finale, è il fantomatico e adorato ‘Bene’. Ciò che non è l’uno, sta nell’altro. E viceversa. Oppure no?

L’approccio di Bocchiaro tende alla frantumazione delle mode più comuni. Questo etichettare ‘male’ persone che hanno compiuto gesti, scelte o in generale azioni contro altri esseri umani, dunque mal-vagi; e automaticamente associare alla normalità, al vivere entro ‘margini diffusi, mediamente innocui’ qualcosa di bene-volo; entrambe le convinzioni sociali sono per l’autore, nulla più che dinamiche di sopravvivenza. Come spiega anche Zimbaldo. Ci fa comodo distinguere. Ci fa comodo non sentirci coinvolti, in quanto gente comune, tranquilla nel vivere e stare. E’ condizione stabilizzante, rassicurante, questo voler individuare ‘geni malvagi’, tratti che da principio, da sempre rendono talune persone, male o che comunque se lo portano dentro. Quasi malattia. Patologia riconoscibile per sintomi e manifestazioni. Gli altri – tutti gli altri – non potrebbero mai. Figuriamoci. Proprio mai.

Bocchiaro divide il testo in capitoli che scandiscono ottiche diverse. Scene o macro accadimenti diversi per natura ma accumunati dal male rintracciatovi, additato, condannato.

L’obbedienza, capitolo due, attraverso l’analisi della figura di Adolf Eichmann (militare tedesco organizzatore preciso e puntuale del traffico ferroviario che trasportava ebrei ai vari campi concentramento, per tali crimini venne impiccato nel 1962, su wikipedia) e un esperimento condotto da Stanley Milgram nel 1961 (alcune nozioni sull’esperimento su wikipedia). Sostanzialmente le logiche tendono ad evidenziare come l’obbedienza e altri fattori collaterali, possono spingere l’essere umano a compiere azioni malvagie, senza considerarle tali, piuttosto mere esecuzioni di ordini, rispetto del potere sopra di sé.

Per sterminare milioni di persone non è necessario dunque possedere la patente di cattivo; piuttosto, basta assolvere i propri incarichi, accettare in maniera acritica le disposizioni altrui e lasciare che l’abitudine facci a il resto. Come afferma la filosofa tedesca Hanna Arendt, inviata del settimanale ‘New Yorker’ a seguire il processo Eichmann, il male diventa banale perché può essere compiuto da chiunque sia inserito all’interno di un sistema che o spinge a spegnere il cervello e ad agire in maniera meccanica.
(pag. 43)

Altro fattore cruciale è l’inerzia, la non azione entro dinamiche di massa. Bocchiaro propone altri esperimenti e l’analisi del ‘delitto genovese’ (Kitty Genovese venne aggredita nel ’64 rientrando dal lavoro, finendo stuprata e ferita mortalmente. Le indagini rintracciarono ben trentotto persone che avrebbero potuto – capendo la situazione – intervenire in qualche modo, ma nessuno lo ha fatto. Su wikipedia). Le teorie esposte nel saggio tendono a sottolineare quanto le certezze possono essere labili e inverse, nella realtà. Proprio quando più persone entrano a conoscenza di un dramma, una condizione di emergenza, meno saranno i potenziali soccorritori. Più si è, di fatto, e più le responsabilità verranno mitigate e ripartire. Il pensiero ‘tanto lo farà qualcun’altro’ pare diventare alibi, propensione all’inerzia. Bocchiaro esplicita concetti impopolari come ‘diffusione della responsabilità’, ‘ignoranza collettiva’ e ‘credenza in un mondo giusto’. Ma lo fa argomentando. Assumendosele, responsabilità intellettuali.

Non c’è da estirpare un male interno agli astanti né da interrogarsi sui tratti che li accomunano; piuttosto, bisogna ridare dignità a quanto fa da cornice all’ (in)azione, esaminando di fattori che, documentati da ricerca, ne stanno alla base. Questo non vuol dire esautorare l’essere umano, ma, piuttosto, riorganizzare le variabili in campo così che le forze situazionali riacquistino peso.
(pag.66)

Sempre delle folle, e delle forze che innescano, si occupa poi nel capitolo successivo. Recuperando un episodio che risala al 1985, la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool che si concluse con trentanove morti. De-individuazione viene definito questo stato. Quando, spiega Zimbardo, “il gruppo, creando una condizione di anonimato, allenta il senso di responsabilità personale e i divieti morali di ciascuno” (pag. 69). E’ indiscutibile che la rabbia, la ferocia, non si innescano dal nulla, sono già parte dell’essere umano. Eppure:

In ognuno di noi esiste una pulsione distruttiva – la destrudo freudiana – che ci fa provare una strana attrazione nei confronti del male. Questo potenziale negativo viene normalmente inibito dai divieti morali interiorizzati durante il percorso di socializzazione; dei residui si occupa poi il sistema sociale, facendo sì che vengano dissipati nei tempi e nei momenti ritenuti accettabili.
(pag.77)

Il sistema inibitorio però, può non funzionare a dovere. Subire influenze o deviazioni esterne.

 

[segue]

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Nello scaffale

’Psicologia del male’ di Piero Bocchiaro, prefazione di P.Zimbardo, Laterza, 2009, seconda edizione 2010.

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