Il protezionismo di Trump: un boomerang

Il protezionismo economico adottato da Donald Trump durante la sua presidenza, accompagnato da dazi e barriere commerciali contro la Cina, si è spesso rivelato più propaganda che strategia efficace.
L’idea di riportare le industrie negli Stati Uniti e di interrompere la dipendenza dalla Cina si è scontrata con realtà economiche e tecnologiche che rendono questa visione difficilmente attuabile.
La Cina, fabbrica del mondo
La Cina, nel corso degli ultimi decenni, si è trasformata nella "factory mondiale" grazie a una combinazione di fattori: manodopera a basso costo, infrastrutture logistiche avanzate, politiche industriali aggressive e un ecosistema produttivo che va ben oltre la semplice produzione in serie.
Nonostante i dazi americani, l’idea che la Cina possa essere sostituita come centro produttivo globale è irrealistica. Le tecnologie avanzate, in particolare quelle legate all'elettronica e alla mobilità elettrica, hanno ormai raggiunto un livello di complessità che non consente passi indietro. Oltre al vantaggio competitivo sui costi, le aziende cinesi hanno consolidato una capacità produttiva e un’esperienza tecnologica che nessun altro Paese può replicare nel breve termine. Ad esempio, la Cina oggi domina la produzione di batterie al litio, essenziali per il settore dei veicoli elettrici, con una quota di mercato globale che supera il 70%.
Costi del lavoro e qualità produttiva
Un altro ostacolo insormontabile è rappresentato dal costo del lavoro. Secondo i dati dell’International Labour Organization (ILO), il salario medio orario di un operaio cinese è significativamente inferiore rispetto a quello di un operaio americano o europeo. Anche paesi del Sud-Est asiatico come il Vietnam e l’Indonesia non riescono a competere sui costi con la Cina, che può inoltre contare su una forza lavoro altamente disciplinata e sulla disponibilità di materie prime.
In termini di responsabilizzazione e qualità del lavoro, tuttavia, l’Occidente ha ancora un vantaggio. Gli operai americani ed europei operano in un contesto normativo e culturale che favorisce standard qualitativi più alti, ma questo non è sufficiente a colmare il divario competitivo in settori in cui la produzione in massa e il prezzo determinano il successo.
La tecnologia non si regala più
La Cina ha inoltre imparato dai suoi errori. Se in passato ha permesso alle aziende occidentali di accedere facilmente alla sua tecnologia e ai suoi brevetti, oggi adotta un approccio molto più protettivo. La tecnologia è diventata una risorsa strategica per la Cina, cruciale per mantenere la sua posizione globale. Con l’ascesa di giganti tecnologici come Huawei, BYD e CATL, la Cina è ora un leader in settori come le telecomunicazioni, le energie rinnovabili e i veicoli elettrici.
Le politiche protezionistiche americane non fanno altro che incentivare ulteriormente la Cina a sviluppare tecnologie indipendenti e a ridurre la propria dipendenza dall’Occidente. In questo contesto, gli Stati Uniti rischiano di isolarsi da un mercato globale sempre più interconnesso.
Conclusioni
Il protezionismo di Trump, anziché rafforzare l’industria americana, rischia di trasformarsi in un’autocastrazione economica. Le dinamiche globali non possono essere invertite con dazi e slogan nazionalistici: il progresso tecnologico è inarrestabile, e la Cina continuerà a giocare un ruolo centrale come fabbrica del mondo. Per competere realmente, l’Occidente deve investire in ricerca e sviluppo, ridurre le proprie inefficienze e collaborare a livello globale, piuttosto che cercare di imporre barriere contro un gigante economico ormai inarrestabile.
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