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 Home page > Tempo Libero > Musica e Spettacoli > Il Pippo Franco che non ti aspetti

Il Pippo Franco che non ti aspetti

Domenica 21 novembre u.s., al Teatro Annibale Maria di Francia di Messina, il recital Svalutation di Pippo Franco ha aperto la stagione teatrale 2010÷2011 del ciclo Risate di casa nostra, con la Direzione Artistica di Pietro Barbaro.

Non è il comico colui che gli spettatori si sono trovati davanti, bensì l’artista perplesso che, nella sua scepsi, gira i teatri d’Italia con il suo spettacolo costantemente «aggiornato» secondo le esigenze artistiche e contestuali del momento. Per prima cosa l’uomo di fede, che parla ai messinesi di Santa Eustochio Calafato e del convento delle clarisse di Montevergine, invitandoli a visitarlo ed a ripetere l’esperienza spirituale che egli stesso fece ventisei anni addietro, lui che messinese non è. Poi l’uomo di pensiero, che da sempre utilizza per mestiere l’ironia e che vede studiare l’ironia da Platone (in un saggio andato perduto) e da Sigmund Freud (nel saggio "Il motto di spirito ed il suo rapporto con l’inconscio").

Pippo Franco si pone la stessa domanda che veniva posta nel 1750 nel bando di un concorso indetto dall’Accademia di Digione sul tema “La rinascita della scienza e delle arti ha contribuito a corrompere o a purificare i costumi?”, bando cui rispose anche Jean-Jacques Rousseau col suo celebre primo saggio «Discorso sulle scienze e sulle arti». Pur senza mai citare il filosofo ginevrino, trova la sua stessa risposta: quello che a noi appare “progresso”, a guardarlo bene, è, invece, un “regresso”. Il comico che ha per decenni esercitato l’ironia della satira verso il potere, quella satira che castigat ridendo mores, vede oggi inaridirsi questa vena artistica, sua e non solo sua, ma di tutti quanti un tempo facevano satira giusto come Quinto Orazio Flacco. Oggi la satira è sparita ed il perché va cercato nella nuova struttura del potere, che vede non i sapienti, come Pitagora, assumere la gestione della res publica, ma i guerrieri (del denaro).

Le considerazioni del comico potrebbero essere allargate considerando che oggi sta succedendo quello che Platone giammai aveva auspicato potesse succedere quando scriveva il dialogo "Repubblica", il cui vero titolo è "Politeia", da tradurre più correttamente in "Costituzione"; ossia che fossero i guerrieri ad assumere il potere politico (il cui atto fondamentale è, appunto, la definizione della Politeia di uno Stato). Il filosofo greco dimostrò che era necessario l’affidamento del potere ai filosofi, attraverso la sua celebre tesi che i filosofi governino o che i governanti facciano buona filosofia, perché sono solo i filosofi a conoscere ed a sapere, perciò, perseguire il bene comune (che non coincide affatto con l’utilità). Se, invece, sono i guerrieri ad assumere il potere (guerrieri che oggi non usano più come un tempo la spada, ma la ben più subdola ed efficace arma economica), vengono meno anche le ragioni della satira, nata per sottolineare ai filosofi i loro errori: la satira, nei guerrieri armati con la spada del denaro, non trova più il suo giusto interlocutore. Restano in giro nani e ballerine, odalische e giullari, che si esibiscono tutti per la corte del potere, ma questo tutto è tranne che satira.

A questo punto (lo spettacolo deve pur andare avanti) l’ironia resta applicabile ad aspetti, come dire, più correnti dell’umanità: al calcio, ai rapporti di coppia, alla casualità. Su questi temi si esercita l’uomo di teatro nella seconda parte dello spettacolo, portando al riso ed all’ilarità lo spettatore, come sempre il suo mestiere gli consente. Formidabili quelle che egli chiama “fotografie” di involontaria comicità, riprese da alcuni suoi saggi, scritti a quattro mani con il professore Antonio Di Stefano per Mondadori.

E, comunque sia di ciò, resta il fondo amaro, di queste “Risate di casa nostra”.

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