Il Parlamento dice sì all’arresto di Papa ma salva il senatore Tedesco

Alle 18,30 di una giornata convulsa, di sospetti incrociati per la paura dell’onda anti-casta, di scontri latenti all’interno della Lega e dell’opposizione, la Camera dice sì all’arresto di Alfonso Papa, il deputato pidielle vicinissimo al faccendiere Bisignani, l’ex magistrato che lo informava – così ha dichiarato il sottosegretario Gianni Letta ai Pm – sui movimenti delle Procure.
«Sono innocente» – dice ai suoi colleghi prima che si pronuncino sul suo destino – «La verità ha tempi lunghi, ma alla fine verrà fuori. Mi dispiace solo per i miei figli, ma io la rispetterò e l’accetterò come ho rispettato e accettato la decisione della giunta, come ho accettato e rispettato qualunque decisione che mi ha riguardato come accetterò e rispetterò qualunque decisione presa su di me». L’appello, fatto a bassa voce, si scontra con il verdetto dei numeri: 319 sì, nell’aria da quando la Lega dichiara che voterà per l’arresto.
E’ questo lo snodo di una giornata che dev’essere ricostruita momento per momento, scandita da nuove inchieste giudiziarie tanto da far circolare negli interventi in aula il paragone con gli anni di Tangentopoli.
Esito e numeri raccontano la sofferenza della Lega, stretta dalle pressioni del suo elettorato e la fedeltà a Berlusconi, fra Maroni e Bossi impegnati sempre meno sotto traccia nella battaglia per la leadership. Il voto segreto avrebbe dovuto proteggere le defezioni dalle linee dei partiti, e consentire alla Lega di rispettare il patto di Bossi con Berlusconi accusando l’opposizione, in particolare il Pd, di aver puntato allo scambio: Tedesco al Senato in cambio di Papa alla Camera. Rendere palese il voto diventa quindi l’obiettivo principale del Partito Democratico che non può permettersi nemmeno il sospetto di uno scambio.
Bersani riunisce il gruppo all’ora di pranzo, il partito è in subbuglio perché la decisione di mettere al voto l’arresto di Tedesco viene attribuita al dalemiano Nicola La Torre che di Tedesco è amico. Nella difficoltà il Pd teme anche Di Pietro. L’intervento morbido del leader dell’Idv fa circolare il sospetto che anche Di Pietro possa votare no all’arresto protetto dal segreto e dare la colpa agli amici del Pd.
I dipietristi trovano la soluzione: votare col dito indice, quello necessario per votare sì. Tecnicismi che la dicono lunga sul clima.
Il Pd fa lo stesso: prepara anche i foglietti che rendono palese il suo sì, e fino all’ultimo chiede il voto palese insieme all’Udc: «[...] Per consentire che il nostro voto non sia sintomo di autotutela della Casta, ma espressione di libertà. Rinunciamo al voto segreto e saremo tutti più forti e più liberi. Anche voi!» sbotta Casini.
«Voi volete legare ed eliminare la libertà di coscienza del parlamentare rispetto a questo aspetto decisivo. Respingiamo nel modo più netto questo invito e confermiamo la richiesta del voto segreto» risponde a tono il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto.
Il capogruppo leghista è il problema dei maroniani. Il ministro degli Interni siede nei banchi del partito e si sa che non ne vuol sapere di affiancarsi al premier sul caso Papa. La mutevolezza di Bossi, oggi assente, non riuscirebbe a coprire una mossa complicata come dire sì e poi votare no. Segretezza o non segretezza, tutto è troppo complicato, tutte le tattiche troppo esplicite. Si va al voto.
L’esito spiazza il Pdl, le tensioni si traducono in rissa: Casini porta via di peso un deputato dell’Udc che si accapiglia con uno del Pdl. Volano insulti da una parte all’altra, Berlusconi lascia la Camera con una faccia scurissima e riunisce i vertici del Pdl a Palazzo Grazioli.
Come in un mondo che gira al contrario, lui chiede all’aula di autorizzare il suo arresto e gli avversari politici gli lanciano un salvagente. Non gli danno proprio l’assoluzione, ma un bel lasciapassare: con 151 voti contrari e 127 a favore e 11 astenuti, Palazzo Madama nega, a scrutinio segreto, la concessione agli arresti domiciliari per Alberto Tedesco, senatore ex Pd poi dimessosi ed entrato nel Gruppo Misto.
Sessantadue anni, ex assessore alla sanità pugliese nel primo governo Vendola, Tedesco è coinvolto nella mega-inchiesta sullo scandalo della sanità pugliese con l’accusa di concussione e corruzione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso.
Ore 16,30 inizia il dibattito. Tedesco è presente seduto al solito posto nella penultima fila dell’emiciclo accanto agli ex colleghi del Pd.
Tocca al senatore Li Gotti dell’Italia dei Valori riportare le conclusioni della Giunta per le autorizzazioni a procedere che ha deciso, in sostanza, di non decidere sul caso rinviando al voto dell’aula del Senato. E’ proprio questo dettaglio che concede lo spunto ad alcuni rappresentanti del centro-destra per votare no. No all’arresto, ma appigliandosi ai cavilli del regolamento sostanzialmente senza mai entrare nel merito delle accuse.
E’ stato invece lo stesso senatore Tedesco, in un breve intervento, pur rivendicando la sua estraneità ai fatti contestati dai magistrati baresi, a chiedere di votare sì e a scrutinio palese e di autorizzare le misure cautelari. Oggi, ha detto, vi è un paese che non si fida più, e dalle istituzioni una valutazione delle opportunità deve portarci a non fare adombrare il dubbio che in favore di qualcuno di noi si assuma un atteggiamento che non sia assolutamente fondato su ragioni nobili: «Io vi chiedo sommessamente ma fermamente di rispondere positivamente alla domanda della Magistratura barese, di farlo alla luce del sole offrendo le nostre facce». E conclude, lui ex socialista, con una citazione di Nenni: “Si faccia quel che si deve accada quel che può“.
Quello che poi è accaduto in serata, al termine di un dibattito acceso, con il voto contrario a favore dell’arresto e del voto palese, si erano pronunciati i gruppi del Pd, dell’Idv, del Terzo Polo e della Lega. Contrario il Pdl schierato sulla linea garantista. Nei banchi, non tutti pieni della maggioranza, sono comunque volate parole grosse e la richiesta di dimissioni nei confronti di Tedesco, con un finale di urla e parapiglia e una lite tra Domenico Gramazio del Pdl e il senatore Giaretta del Pd con tanto di insulti e spintoni. Insomma, tutto nella norma della politica italiana.
Commenti all'articolo
Lasciare un commento
Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina
Se non sei registrato puoi farlo qui
Sostieni la Fondazione AgoraVox