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Il Coronavirus e il declino dell’impero americano

 

Prendo in prestito dal regista canadese Denys Arcand il primo titolo di una serie di tre film (il secondo "Le invasioni barbariche" ed il terzo "La caduta dell'impero americano", tutti e tre godibissimi, da vedere) in cui l'autore descrive la decadenza del paese a stelle e strisce. Jeff Daniels, nell'intro della serie prodotta dalla HBO "The newsroom" (anche questa godibilissima, da vedere), afferma con dovizia di particolari che "L'america non è più il più grande paese al mondo".

Il riferimento cinematografico iniziale non è casuale. Il più recente dei settori nel quale si è manifestata la perdita della supremazia USA è proprio il mondo della celluloide e la sua capitale, Hollywood. Dal 2000 ad ad oggi, l'Oscar al miglior film è stato assegnato a cinque registi statunitensi e cinque stranieri: pareggio. Mai accaduto prima. Se il declino era iniziato con l'acquisto dei colossi giapponesi delle major di distribuzione, proseguito poi con sempre più importanti finanziamenti arabi e cinesi nelle produzioni e mai come ora il dominio cinematografico USA è stato incrinato in modo così marcato.

Se una volta gli USA erano sia dal punto di vista militare che politico il poliziotto del mondo, dal termine del secondo conflitto mondiale l'America ha inanellato una serie di pesanti e costosissime sconfitte su entrambi i fronti. Quelle militari all'inizio con le batoste in Corea e Vietnam, con ingenti danni sia in termini umani che economici. Poi in Medio Oriente, ed anche qui la situazione non è migliorata: Libano, Iran, Afghanistan, le finte vittorie nelle guerre del Golfo e l'attuale stallo in Nord Africa ne sono la dimostrazione. Nella politica internazionale le cose non vanno meglio. Basti pensare alla progressiva perdita di influenza su continente sudamericano, al fallimento dopo oltre un ventennio delle trattarive di pace fra Palestina ed Israele, la difficile situazione nel Mediterraneo, i complessi rapporti con la Corea del Nord e la Russia e i dazi verso l'Europa sono le cartine al tornasole di una politica affannata.

In economia e nel lavoro i risultati sono stati all'inizio eclatanti ma fragili sulla lunga distanza. I successi sull'occupazione si sono dissolti all'inizio dell'epidemia di coronavirus e proseguono inflessibili nella caduta, come la Borsa di Wall Street.

La stessa epidemia virale ha dimostrato la scarsa attitudine dell'attuale governo USA alla lungimiranza. L'inerzia dei primi giorni, fondamentali per la lotta contro il vaccino, ha trasformato una delle potenze mondiali in una nazione balbettante i cui stati interni iniziano a vedersi con una certa diffidenza in base al numero di contagi. L'altalena delle dichiarazioni del presidente, che passano con la rapidità di un lampo da un'affermazione al suo esatto opposto, se sempre inopportune ma comunque digeribili in altri contesti, diventano pericolosissime su questioni sanitarie. Errori di questo tipo, in questi casi, possono significare migliaia di vittime in più o in meno. La soglia dei 100.000 morti secondo cui Donald Trump considererebbe la lotta contro il Covid19 una vittoria, è al momento pura utopia, con il numero dei contagi in aumento preoccupante.
Certo, l'America è in grado di far giungere nel porto di New York una nave ospedale militare da 1.000 posti letto in grado di essere operativa in 24 ore, ma se la violenza con cui il virus si è scatenato nella Grande Mela attaccasse anche altre metropoli? La corsa all'acquisto di armi dei primi giorni del contagio disegna scenari inquietanti sul fronte della stabilità sociale, altro grandissimo problema in uno stato con un tasso di immigrazione elevato, senza una sanità pubblica, con buona parte degli stessi americani non in grado di sostenere un'assicurazione sanitaria almeno decente ed un altissimo numero di aspiranti pistoleri. Insomma, La notte del giudizio.

Gli Stati Uniti d'America sono stati per decenni il faro di riferimento del mondo occidentale. Sarà meglio, per il mondo intero, guardare da un'altra parte.

Photo By: CDC via AP

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