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Emanuele Cerullo: torna il poeta di Scampia con "Prima di tutto"

In attesa di trovare un editore o una casa discografica, Emanuele Cerullo si racconta attraverso il suo nuovo street-album: l'infanzia alle Vele, la scelta di essere diverso, l'indifferenza come vera responsabile del male di Scampia, la "colpa" dei genitori, la voglia di conoscere e andar via, non per fuggire, ma per tornare con maggiore consapevolezza.

Lo chiamano il poeta di Scampia. È stato “fenomeno mediatico” grazie alla sua prima raccolta di poesie, è stato al Salone del libro di Torino, ha ricevuto premi, riconoscimenti e anche Pippo Baudo l’ha voluto a “Domenica In”. Ma ciò che gli interessa veramente è cercare, scrivere, approfondire e poi viaggiare per quella sete di conoscenza che, ancora bambino, gli faceva leggere Dante, o che lo fece iscrivere al Liceo Classico di Scampia; sogno al quale ha dovuto rinunciare per mancato raggiungimento di un numero congruo di alunni.

Oggi il Classico non c’è più e lui, dopo una parentesi allo Scientifico, ha optato per un Istituto Tecnico. Ma ciò che non cambia è la passione per la musica, la poesia, il rap. Ha solo 19 anni e ha da poco autoprodotto il suo secondo lavoro, “Prima di Tutto”, street-album che arriva dopo “Il coraggio di essere libero”: non una semplice rinascita o maturazione nel modo di scrivere, ma un vero e proprio esperimento, una vera e propria voglia di rimettersi in gioco, di mostrare il proprio mondo, le proprie esigenze e denunce, le preoccupazioni dell’abitante della metropoli che tende ad essere sempre più cosmopolita; la voglia di vedere la diversità come una ricchezza, la voglia di riscattare, riscattandosi. Le produzioni sono affidate ad un team vasto di produttori, che hanno reso ancora più musicali le poesie di Cerullo.

Quando è nata la tua passione per la musica e cosa vuoi raccontare?

La passione per la musica è andata di pari passo con la passione per la poesia. Ho cominciato a scrivere ad 8 anni, quando vidi per la prima volta un rapper, Eminem, a Sanremo… Allora iniziai a scrivere canzoni rap. Poi, in quinta elementare, decisi di far leggere queste mie composizioni alla maestra di italiano e lei mi disse che erano poesie”.

Dove sono cresciuti i tuoi sogni?

“Io sono vissuto nella Vela celeste dalla nascita fino al 2006. Ricordo l’ultimo anno in cui sono stato là, quello del mondiale. Tra il 2005 e il 2007, durante la faida, cominciai a scrivere cose più “sociali”: sentivo un male interiore, vedevo molti coetanei che crescevano in un modo diverso dal mio. E la diversità la vedevo anche solo giocando con loro a calcio: erano prepotenti e crescevano a pane e strada. Io ero dedito alla ricerca, non tanto alla scuola. Allora frequentavo le medie e nella mia classe c’erano molti individui che non favorivano il regolare svolgimento delle lezioni. Allora tornavo a casa e cominciavo le mie ricerche. Si parlava di Dante in classe e tornavo a casa e leggevo tutto ciò che trovavo su di lui. Ricordo che mentre leggevo la “Vita Nova”, persi la testa per una ragazza. Lei non lo ha mai saputo, ma io le ho dedicato tanti sonetti. Poi, in terza media, il 23 aprile del 2007, la mia scuola, la Virgilio 4, pubblicò un opuscolo “Il coraggio di essere libero”, una raccolta di poesie che avevo scritto su Scampia. Una raccolta enorme; un sogno che si è realizzato: di questi tempi vedersi pubblicato un libro è un bel privilegio”.

Non pensi che troppi sfruttino la nomea di Scampia per pubblicare libri e far soldi?

“Forse è vero che c’è anche di peggio. Siamo in uno dei tanti sud del mondo che come tanti sud del mondo ha avuto una storia unica. Sono convinto che bisogna scrivere di Scampia, ma è indispensabile scrivere da Scampia. Sicuramente c’è uno sciacallaggio mediatico e noi siamo un po’ stanchi anche di vedere Scampia usata come “espressione” per indicare zone degradate di altre città. È normale che il male fa più notizia del bene. Però, è pur vero che, secondo dei dati diffusi dalla Federico II, solo una minima parte di Scampia è legata alla camorra”.

Ma anche il non parlare, il girare la faccia è un modo per appoggiare quella minima parte…

L’indifferenza produce male. L’indifferenza è la “mamma del male”. E l’indifferenza abita in tanti animi. Scampia detiene un primato: c’è un numero spaventoso di Associazioni. Ma il bello è che questo primato non viene sfruttato positivamente. Perché le Associazioni invece di confrontarsi e unirsi per il bene comune, entrano in competizione tra loro. E questo non serve a nulla. E lo “denuncio” anche nelle mie canzoni: vergognatevi di questa finta volontà e questo finto volontariato. Perché dietro c’è l’economia, c’è un giro di affari, che è il contrario dell’associazionismo”.

Cosa significa crescere alle Vele?

“Da un punto di vista sociologico, significa crescere in un mostro architettonico, costruito da un architetto innocente, spesso preso come capro espiatorio: come se fosse lui il responsabile di tutto. In realtà il progetto di Franz Di Salvo prevedeva centri di aggregazione che il Comune ha escluso. L’idea era di creare una città satellite, anche se poi altri progetti simili hanno fatto la stessa fine, vedi Librino, vedi lo Zen. Qui a Scampia non c’è nulla. Ricordo che io giocavo a calcio negli scaloni della Vela, dove gli ascensori fungevano da porte. Ricordo che per noi vedere un campetto da calcio era come vedere il San Paolo! Cosa significa crescere a Scampia? Se cresci nell’indifferenza dei genitori, che non vogliono che dalle tue tasche escano sogni, ma soldi, è dura. I genitori sono determinanti ed io sono infinitamente grato ai miei, se sono ciò che sono”.

Come si fa a crescere “diversi” a Scampia?

“Essendo se stessi. Perché la ricchezza è la diversità. In una comunità ciò che conta è la diversità. Sai non è facile rispondere, quando vivi dentro determinate situazioni. Io non sarei ciò che sono, se fossi diventato amico di chi giocava con le pistole. Io me ne stavo a casa a scrivere. Ma nelle Vele c’è la mia infanzia, il tragitto che facevo per andare a scuola e le strade deserte durante la faida, perché i genitori dicevano di non scendere, perché avevano paura”.

I bambini che comprendono il linguaggio della camorra o della polizia hanno paura?

“Da bambino, dal momento in cui vieni preso per mano, non te ne rendi conto. Se vieni preso per mano da chi rappresenta lo sbandamento totale, non te ne accorgi. Perché non c’è senso critico. È questo ciò che manca, perché nessuno ti fa vedere ciò che è bene e ciò che è male”.

Di chi è la colpa?

“Dell’indifferenza. Poi c’è il discorso del padre che spaccia perché non c’è lavoro e non si rende conto di distruggere chi cerca di andare alla ricerca della felicità e di riempirsi di libertà”.

Ti sei mai sentito prigioniero a Scampia?

“Io mi sento intrappolato nel momento in cui non mi fanno dire ciò che penso”.

E come te lo impediscono?

“Non mi è mai capitato. Chiaramente se avessi deciso di avere amicizie “sbagliate” sarebbe stato diverso”.

A gennaio si è diffusa la voce di una nuova guerra. In realtà non c’era.

“Io non ho ancora capito quando finirà tutto questo. Ormai mi scoccio pure di leggere il nome di Scampia sui giornali”.

Non avete voglia di farvi sentire?

“Certamente. Ma siamo in pochi! Ormai la mia Scampia è divisa tra gomorrismo e narcisismo. Quando e se qualcuno decide di scendere in piazza, c’è chi dice “vabbuò ma che fai a fare”, “tanto sono corrotti anche i poliziotti”. Questa è la forma mentis, purtroppo".

In cerca di un editore, Emanuele Cerullo non si ferma alla poesia.

“Mi chiamano, poi mi chiedono di scrivere prosa e non poesie. Ma io scrivo poesie. Ultimamente ho scritto anche un romanzo che parla del tricolore degradato: si tratta di un viaggio, anche storico, attraverso i quartieri degradati di tutta Italia, in primis del nord. Ma non interessa. Perché parlare di Scampia da un punto di vista storico? È più interessante parlare di morti ammazzati e cronaca".

Cosa vuoi fare da grande?

“Credo che esistano tre etnie: il non lavoratore a tempo stuprato, il lavoratore a tempo indeterminato e l‘artista a tempo inventato. Io scelgo la terza categoria”.

L’idea di andare via?

“Durante un'intervista, una volta, Saviano mi consigliò di andare via. E sono d’accordo con lui. Solo andando fuori, posso tornare con una consapevolezza diversa. E si tratta di un viaggio, non di una fuga. Che cagno si resto ccà? Perché “Voglio viaggià’ e po’ voglio turnà ccà, voglio essere l’inchiostro d’a poesia cchiù bella ca ce sta”.

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