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 Home page > Tribuna Libera > Dov’è "casa loro" e come li aiuti?

Dov’è "casa loro" e come li aiuti?

Premetto: non aderendo a nessuna Religione posso permettermi di non dover amare tutti. Mi è sufficiente la coscienza che mi impone di non odiare nessuno. Mi considero perciò una buona persona senza la necessità o convenienza personale di apparire “bella”.

Prendendo in considerazione aspetti meno osservati della migrazione in Italia di genti africane sono evidenti incongruità rispetto ai luoghi comuni della narrazione mediatica.

Si escluda la possibilità di “fermare gli stranieri” , inattuabile se non per un effimero successo temporaneo utile solo alla contrapposizione di propagande, guardando però criticamente alla gestione del sistema d’accoglienza e quindi alle ripercussioni che le iniziative d’accoglienza determinano.

 Le considerazioni che seguono nascono dalla osservazione dei grandi “centri” italiani che accolgono prevalentemente genti dall’Africa Nera.

L’informazione fornisce dettagli riferiti alla miriade di piccoli centri d’accoglienza istituzionali sparsi nel Paese utili a colmare la mancanza di strutture di prima accoglienza e verifica. Un caleidoscopio di realtà particolari che, in un verso o nell’altro, alimentano la propaganda di compagini politiche che si contrappongono negando ogni confronto a causa dei preconcetti, determinandone la sterile intransigenza.

Basta guardare e salta all’occhio dov’è e com’è strutturato il modello barbaramente efficiente di “integrazione” degli Africani Neri: la mano d’opera deregolamentata di supporto alla produzione agricola.

A dimostrazione si analizzi la realtà della campagna nel foggiano. Molto replicata al sud e non solo.

Esistono lì diversi accampamenti con dimensioni di villaggi di svariate migliaia di persone esclusivamente di pelle nera. La prima cosa che stupisce è come la diffidenza verso il bianco in visita, essendo solitamente uno sfruttatore, non gli impedisce di accogliere qui bianchi che dichiarano avere buone intenzioni, dunque il confronto.

I dati ci dicono quanto versano di contributi i lavoratori extracomunitari del foggiano. Il gruppo che versa di più è il magrebino. Visto il colore diffuso tra i pomodori in raccolta già qualcosa non torna. Difficile sostenere che gli abitanti delle mega baraccopoli, tutti neri, tutti in nero non pagano le tasse. Tutt’altro: le “imposte” in quei ghetti sono dissanguanti.

Per arrivarci nei villaggi afro/pugliesi si imboccano dissestate, oltremodo, stradine dritte come fusi per chilometri ed al cui imbocco, dalle statali, minacciosi improvvisati cartelli comunicano che la strada è senza uscita. Trafficate ad orari precisi da una quantità di altrettanto fatiscenti veicoli; più rare le jeep dei “mediatori bianchi.

Un viaggio sotto il sole dentro un tutto o un nulla fatto di “rosse vesciche” e verzura puntinato di nero. Col buio solo stelle e fruscii sulla distesa dei campi coltivati.

Nel mezzo di questo indefinito spazio/tempo sorge la distesa di baracche, dapprima inquietante poi entrandovi rasserena il notare baracche ordinate ed a volte in qualche modo gradevoli nella calma diurna.

Presto si scopre che sono le attività che camorra e n’drangheta, attraverso pacifica spartizione in quell’area, hanno concesso ad alcuni residenti delle baraccopoli; il bordello, da antica convenzione dei boss con i nigeriani, il bar, la ricarica dell’energia dai pannelli fotovoltaici, i guanti, il tabacco etc.. Già perché non c’è luce ne acqua potabile, ma sono acquistabili dai vari gestori. Ma per lo “svago” ci vuole un reddito.

Qui nel foggiano il lavoro non manca come non mancano le “imposte. Il reddito tipo si basa sul salario a cottimo: dai 3 ai 5 euro per cassa da ca.40kg. ma dimezzato dal “pizzo” dei caporali che in oltre richiedono 5 euro a viaggio.

I pochi che riescono a raccogliere più di 25 casse sono stimati nella comunità nera, non già per l’arricchimento ma per la dimostrazione del valore di un popolo forte. Strano popolo, oggi in fratellanza continentale da profughi quanto divisi nella loro terra. Comunque quel poco che resta di soldi è solitamente spedito a casa deve i loro cari lamentano ancora più miseria.

E’ ciò che fa sopportare la vita grama ai lavoranti; fatta di fatica, mani dolenti, sporcizia, ossa rotte che riposano malamente nel frastuono notturno dei festini, solitamente fra “caporali”.

Questi sistemi non sono occulti, sono graditi e voluti dalla criminalità organizzata e dall’industria, che non dovrebbero coincidere; fanno rete anche con i centri d’accoglienza ufficiali.  

Ma, attenzione, nelle baraccopoli non trovi chi immagineresti. Non si tratta di “fantasmi” appena giunti dall’Africa, clandestini o ufficializzati, per cui qualunque mezzo di sussistenza è benaccetto.

Si tratta invece di quei profughi che, dopo aver metabolizzato gli orrori di un viaggio più o meno lungo, hanno sostenuto l’esame da profugo e, non sempre, ne hanno ricavato un permesso. Non solo. Hanno vissuto l’impotenza del vuoto nelle attese dentro i C.A.S (i centri accoglienza straordinari ... che ordinariamente ospitano ca. l’80% dei richiedenti asilo; si sono entusiasmati nei corsi didattici e professionali acquisendone la fallace morale. Sono e si sono scolarizzati per adeguarsi ad un mondo del lavoro a cui servono eventualmente come riserva. Questo vale anche per le maggiori competenze ed attitudini.

Si tenga presente che solo un ottimistico 10% dei rifugiati, più difficilmente neri, vengono assorbiti nel mondo del lavoro non senza scatenare una conflittualità castrante per l’intera classe.

Terminato, in un modo o nell’altro, l’iter del riconoscimento e la fase di assistenza quello che serve ai profughi è lavorare; il lavoro offerto è, nella fattispecie, i pomodori. Lavoro stagionale per chiunque, bianco o nero.

Conveniente mano d’opera nazionale a basso costo per concorrere con chi, in paesi lontani, ce l’ha già disponibile. (E gli facciamo pure, blandamente, la morale).

Un modello d’accoglienza dove ognuno ha il suo ruolo; dal mantenimento cinico ma redditizio di una calma sociale apparente allo sfruttamento disumano di un popolo costretto a migrare. Una società egoistica che ipocritamente riesce a percepire una normalità semplicemente rimuovendo gli orrori dalla vista.

Tuttavia nel modello di urbanizzazione sociale degradante delle baraccopoli, che ben si presta allo sfruttamento dell’individuo costretto a competere tra simili, qui si manifesta un atteggiamento nuovo che non si riscontra in altre bidonville sparse per il mondo.

La grande debolezza del popolo africano e criticità più in generale di tutti gli oppressi risiede nella frammentazione, consuetudine del pensiero occidentale, che ne favorisce il controllo e ne consente la propria espansione prevaricante.

Ma oggi in quei caotici assembramenti non c’è quasi piò spazio per ataviche divisioni tra africani in tribù, clan o etnie. La nascente “consapevolezza di classe” appiana rancori, unisce gruppi che in patria si detestavano, promuove il mutuo soccorso. Nella dura vita dei raccoglitori di pomodori del foggiano diventano sempre meno influenti i capi, spirituali o dinastici, altrimenti preposti alla gestione quotidiana delle comunità africane. Il capo coincidente col “kapò - rale” non è più considerato una guida ne invidiato ma detestato come traditore.

Diversamente che in patria nei fatiscenti accampamenti italici di fortuna si concretizza tra i neri un senso di fratellanza tra oppressi: nasce una unità transnazionale, l’urgenza del pan – africanismo si palesa in esilio.

Per i Neri una emancipazione indispensabile che ha in sé l’equità interna per l’Africa e, di risulta, quella generale dell’umanità tutta.

Il nascente senso di “comunità nera” si percepisce dal mutuo soccorso delle collettività che, diversamente che nei rispettivi Paesi d’Africa, sta costruendo una “fratellanza” solidissima; interreligiosa e forse anche in grado di resistente alla distorta morale consumistica mettendola in discussione.

Certo non è escluso che repressione ed educazione riescano a corrompere le anime semplici integrandole in un sistema sostenibile ma capzioso.

In definitiva si tratta dell’eterno misurarsi delle prerogative che vogliamo nella società. Da una parte il desiderio di conservare privilegi, dall’altra la vertenza di chi non li possiede.

Tale vertenza, non individualmente ma attraverso collettivi con dignità e massa critica che consente di essere attori ai tavoli di concertazione, è l’unica consacrata all’equità che deve risiedere in ogni coscienza umanitaria.

 

Commenti all'articolo

  • Di pb (---.---.---.217) 1 ottobre 2018 13:07

    La polarizzazione dell’opinione pubblica, trasversale alle “scelte di campo” politiche e religiose, dei  due contrapposti obbiettivi sulla gestione dei migranti genera una confusione utile unicamente al sistema dominante. Nega l’obbiettività che deve saper discernere tra corretto e strumentale.

    Il non riconoscere che le dinamiche migratorie sono determinate dalle politiche imperialiste e la rappresentazione della “risorsa migranti”, che di fatto è funzionale al mantenimento di meccanismi sociali iniqui, genera un vano scontro o un fragile tornaconto funzionale ad una fittizia opposizione.

    A scanso d’equivoco: sacrosanto è il dovere di aiutare chi è in tragica difficoltà ma, come insegna anche il “buon samaritano”, risolta l’emergenza va restituito alla sua vita.

    Considero però astratto un aiuto che prescinde da quanto sopra considerato quando non addirittura farisaico se accompagnato da una convenienza materiale particolare.


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