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Che cos’è una rivoluzione? Il caso egiziano

Le mie considerazioni sulla rivoluzione e la difficoltà a identificarla (e quindi a sostenerla e difenderla da attacchi esterni) sono state stimolate dalle “Primavere arabe” fin dal loro apparire (basta cliccare sulla parola Rivoluzione, o EgittoSiria o Tunisia per trovare le precedenti polemiche). Incredibile l’accanimento di alcuni, evidentemente nostalgici del “socialismo reale”, impegnati a negare l’esistenza stessa delle rivoluzioni, a sopravvalutare e considerare definitivi e probanti i successi momentanei della controrivoluzione, a ridurre tutto a un terreno di manovra per i soliti servizi segreti imperialisti.

Pare che su questo alcuni non abbiano dubbi: sono sicuri che solo un complotto può spiegare quel che succede nel mondo. Ma non si domandano mai se i servizi segreti (che naturalmente ci sono ovunque e sempre, da quando c’è l’imperialismo, e si danno da fare come possono, senza essere onnipotenti) siano contenti dei risultati. A mio parere avrebbero preferito certamente di gran lunga la situazione precedente affidata a sperimentati ed apparentemente solidi dittatori locali. Per quale motivo gli USA avrebbero dovuto attizzare delle rivolte in un’area che controllavano, non si capisce proprio. Anche per la Libia, non mi sembra che ci abbiano guadagnato molto a intervenire in una realtà che non capivano bene, col risultato di scatenare una situazione di accentuata instabilità, in cui non hanno saputo nemmeno proteggere il loro ambasciatore.

Senza rifare la storia degli ultimi tre anni in tutta l’area, vorrei rilevare alcune frequenti incomprensioni di quanto sta accadendo in quei paesi.

Partiamo dall’Egitto. In genere nell’area sedicente “comunista” si è drammatizzato il ruolo dei Fratelli Musulmani, insistendo prima nel presentarli come pedine dell’imperialismo yankee, poi quando per i loro clamorosi errori hanno perso terreno, e sono stati contestati da grandi mobilitazioni di piazza, ed è quindi stato facile per l’esercito colpirli, decapitarli, bloccare le loro mobilitazioni con feroci stragi, sono stati definiti tout court “fascisti”. La “prova” è qualche solenne dichiarazione di un partito comunista d’Egitto e di qualche esponente della sinistra più o meno moderata locale, sedicente “nasseriana”, che ha creduto utile fare la mosca cocchiera dei generali golpisti.

In realtà i Fratelli Musulmani non sono “fascisti”, né sono stati imposti dall’esterno, ma hanno conquistato subito dopo la caduta di Mubaraq (in cui non avevano avuto un ruolo significativo) un notevole peso semplicemente perché erano stati perseguitati per lunghi decenni, e apparivano alle masse che entravano per la prima volta in politica la più visibile delle opposizioni. C’è qualche analogia casomai con l’emersione sorprendente della Democrazia Cristiana (che non aveva avuto che un ruolo modestissimo nella Resistenza) nelle prime elezioni dell’Italia postfascista. Ma l’analogia si ferma lì, perché la DC poteva beneficiare dell’appoggio della ancora radicatissima Chiesa Cattolica, con la sua esperienza plurisecolare e la capacità di interpretare e rappresentare l’Italia profonda. Qualcosa che non ha l’attuale Fratellanza Musulmana, e neppure l’esercito, filo-israeliano ai vertici, ma troppo grande per non risentire al suo interno i riflessi delle tensioni sociali e politiche che lacerano il paese.

Per accettare le semplificazioni manichee che hanno portato parte della ex sinistra a essere molto indulgente con il golpe di Al Sissi, bisogna ignorare le vicende che hanno scosso negli ultimi anni il lungo regno di Mubaraq, ignorare il peso dei sindacati indipendenti e della grande ondata di scioperi soprattutto nel nord dell’Egitto, e anche i dati del primo turno elettorale: la sinistra aveva raccolto la maggioranza dei voti, ma dispersi tra candidature diverse e contrapposte tra loro. Per questo al ballottaggio era arrivato solo il candidato della Fratellanza Musulmana Mohamed Morsi, a cui si contrapponeva quello dei militari, Ahmed Shafiq.

Riporto un mio commento postelettorale del 26 giugno 2012 (QUI l'articolo intero):

Le elezioni in Egitto sono state sicuramente truccate, a vari livelli. Ma che il risultato non fosse scontato è apparso chiaramente perfino dal lunghissimo e imbarazzato preambolo del presidente della Commissione elettorale (e della Corte costituzionale) Faruk Sultan, e dalle reazioni furibonde all’annuncio della vittoria di Mohammed Morsi di parte della sala, che non si aspettava che l’escluso fosse l’uomo dei militari, Ahmed Shafiq, che era dato da tutti per vincente. Shafiq era stato facilitato in vario modo al primo turno, sia escludendo preliminarmente alcuni dei suoi concorrenti più pericolosi, sia probabilmente aggiungendogli 900.000 voti fittizi, per farlo arrivare al ballottaggio scavalcando il candidato della sinistra nasseriana, Hamdin Sabbahi.

Ma, già allora vari commentatori, tra cui Samir Amin in un’intervista a il Manifesto, davano per scontato che la vittoria di Morsi fosse stata preparata da un accordo tra il Consiglio Superiore delle Forze Armate e la Fratellanza Musulmana.

Io non ero convinto e osservavo:

Tutto è possibile, ma l’ipotesi è semplicistica: non c’è dubbio che il candidato ideale dei militari era il generale Shafiq. Le possibili trattative nell’ombra possono aver preparato una soluzione di compromesso, per guadagnare tempo, e disinnescare la potenziale ripresa di tendenze laiche e di sinistra, presentatesi divise ma con un peso notevole, non lontano da quel 25 o 26% dell’elettorato conquistato dai due maggiori contendenti. Una vittoria attribuita a tavolino al candidato dei militari (che era stato l’ultima carta giocata da Mubarak prima di rassegnarsi alle dimissioni) poteva innescare una ripresa della dinamica rivoluzionaria che aveva pesato in molti momenti della storia delle mobilitazioni egiziane, trascinando i settori più radicali della Fratellanza Musulmana accanto ai giovani rivoluzionari laici.

Perché ora le due parti avrebbero dovuto rompere l’accordo? Morsi aveva irritato molte componenti del mondo politico e sociale egiziano, ma non i militari. Chi, se non lui, aveva nominato Al Sissi? Quella nomina non era il frutto di un accordo di spartizione, ma la testimonianza della debolezza e dell’opportunismo di Morsi, affine a quello che spinse Allende a nominare Pinochet, e tutti i governi repubblicani spagnoli dal 1931 al 1936 a corteggiare, lasciandoli alla testa delle truppe coloniali, Francisco Franco e gli altri generali golpisti.

Fantasticare su complotti e manovre impedisce di riconoscere le tracce di una valutazione realistica dei rapporti di forza da parte dei protagonisti. Morsi aveva avuto bisogno inizialmente del consenso dell’esercito perché sapeva quanto fosse fragile il suo potere, conquistato in elezioni in parte truccate, di cui aveva imprevedibilmente beneficiato, mentre i militari avevano lasciato che Morsi si logorasse facendo errori su errori, prima di osare il recupero di quello che era stato il loro capo indiscusso per trent’anni, Mubaraq. Ma non erano la stessa cosa neppure quando si sostenevano a vicenda. Ancor meno basta, per orientarsi, guardare l’atteggiamento degli Stati Uniti: sostanzialmente impotente, cerca di affrontare un cambiamento che non gradisce ma che non sa come arginare. Ha appoggiato i militari quando stavano con Morsi, li appoggia (o non osa contraddirli) ora. Non ha alternative, se li perdesse, sarebbe una tragedia per Israele, e quindi per gli Stati Uniti, anche perché nei gradi più bassi e tra le truppe l’avversione a Israele è fortissima.

Quello che mi pare sconvolgente è che alcuni compagni scrivano su Facebook attribuendomi simpatie per Morsi, e rimproverandomi per il rifiuto di condannarlo come “fascista”. Inutile rispondere che non ho mai avuto simpatia per Morsi, ma che non posso averne neppure un po’ per i militari che mitragliano i suoi sostenitori. Né sono impressionato dal ripiegamento e dalla riduzione del numero dei manifestanti pro Morsi negli ultimi giorni: mi pare normale che la constatazione che manifestare pacificamente può comportare la morte riduca per qualche tempo il numero di coloro che tentano ugualmente di farlo. Ma è anche comprensibile che i seguaci della Fratellanza Musulmana debbano riorganizzarsi diversamente per poterlo fare, preparandosi a una vera guerra civile. In ogni caso mi pare incredibile che, una volta che Morsi è stato definito “fascista”, si trovi giusto o “inevitabile” che si uccidano a migliaia i suoi sostenitori quasi tutti senza armi, e con le famiglie al seguito. Oltre a tutto la conseguenza è che la prossima volta arriveranno armati. E intanto attaccheranno i più deboli tra i sostenitori della dittatura militare, i laici e i copti.

I militari, d’altra parte, dopo essersi serviti dei comitati popolari di autodifesa in cui avevano fatto infiltrare largamente i baltagypiccoli criminali armati, in genere confidenti della polizia, ora li hanno sciolti. Hanno fatto il loro compito, non servono più, e ai militari l’autorganizzaione appare comunque pericolosa. Ma ciò non toglie che molte delle provocazioni, dei saccheggi di beni archeologici, degli attacchi alle Chiese copte, siano state opera dei baltagy che operavano con l’impunità assicurata, ma sono stati messi sempre in conto agli islamici. Che ci siano stati saccheggi e furti non significa comunque molto: ai margini di ogni rivoluzione si manifestano fenomeni del genere. Ne parlava, sia pur ridimensionando le esagerazioni della stampa controrivoluzionaria, anche John Reed nel suo bel libro sulla rivoluzione d’Ottobre, di cui segnalo con piacere che a differenza di quanto avevo annunciato, anche se è introvabile su carta, esiste un’edizione gratuita on line.

Alcuni commenti su Facebook, insofferenti a ogni valutazione diversa da quella manichea che in nome della “risposta al complotto imperialista” digerisce il presunto progressismo di Assad e di Putin, o dei feroci generali che dominano l’Egitto da quasi mezzo secolo (senza entrare nella discussione su cosa rimaneva di positivo nel nasserismo al momento della morte del Rais), mi hanno impressionato: c’è veramente un rigurgito di stalinismo anacronistico. Perfino gli articoli su Correa, compreso quello di Alberto Acosta, che era stato l’ispiratore della prima fase della politica di Correa, e che era impegnato in politica e nell’ambientalismo di sinistra quando Correa era ancora solo un economista accademico, sono stati liquidati come “pettegolezzi” da una lettrice indignata. Se vengo scambiato per filo Morsi o per un amico degli Stati Uniti c’è una sola spiegazione: mancanza totale di dialettica. Se critico i generali, dev’essere perché mi piace Morsi, se critico Correa è perché sono a favore dell’imperialismo. Non è una situazione solo italiana: anzi molti link proposti dai miei critici rimandano a siti latinoamericani e “bolivariani”.

Ma c’è una specificità italiana: il mito del “grande partito comunista” oltre che di Stalin (della rivoluzione russa evocano quasi solo Stalingrado). Si direbbe che questi “comunisti” non si siano accorti che il “grande partito comunista” è finito penosamente, lasciandoci in eredità Napolitano, Violante, D’Alema, Fassino ecc., né si sono resi conto di quel che è successo all’URSS, né si sono domandati perché a governare la Russia, la Bielorussia, il Kazakhstan, l’Azerbaigian, ecc. sono ancora oggi le dinastie formatesi nella nomenklatura del partito stalinista.

Non sono molti questi nostalgici, ma sono sufficienti per screditare la parola “comunista”. Non si rendono conto del rigetto che in quei paesi, appena si allenta la coercizione, si manifesta per quel passato di cui invece loro sono cultori? Possibile che non si domandino come mai in tutta l’area, a parte momentanee riapparizioni al governo (in base alla cosiddetta “legge del pendolo”) di qualche spezzone di ex comunisti divenuti blandi neoliberisti, emergano sempre più spesso destre virulente come quelle descritte da Autocrati, nuovo volto dell’Est?

Di solito non se lo domandano. Magari si compiacciono per un video di qualche manifestazioni moscovita o georgiana di vecchi nostalgici con ritratti di Stalin, senza far troppo caso alle loro alleanze “rosso-brune” con antisemiti e nazionalisti vari, o riportano grotteschi comunicati trionfalisti di partiti sclerotizzati che ripropongono anacronisticamente quella che un tempo fu chiamata la “neolingua”. E soprattutto spiegano tutto quello che non gli piace con l’azione degli onnipotenti servizi segreti.

Ho sempre risposto a queste teorie complottiste ricordando che i servizi segreti delle maggiori potenze (in particolare della Gran Bretagna che era ancora almeno apparentemente l’imperialismo egemone a livello mondiale) c’erano e si davano da fare – senza successo - a Mosca e Pietrogrado nel periodo 1917-1923. Erano loro che assicuravano finanziamenti e armi agli eserciti bianchi. A lungo ci fu una partecipazione diretta per lo meno di ufficiali stranieri alla guerra civile. Nel Caucaso e nell’Asia centrale l’intervento durò più a lungo e fu più insidioso, perché utilizzò anche la bandiera dell’Islam e/o del nazionalismo separatista. In Georgia ci fu perfino una consistente presenza italiana, in appoggio a una ipotesi di protettorato sponsorizzata formalmente dalla Società delle Nazioni e in realtà auspicata dalla Gran Bretagna, che preferiva cedere ad alleati sicuri il controllo di certe zone. Ma la loro azione fu in definitiva inefficace, anche se spinse la giovane repubblica sovietica a sentirsi direttamente minacciata anche quando non lo era più grazie alle splendide vittorie dell’Armata Rossa.

Non mi stancherò mai di ripetere che se in epoche successive l’azione dei servizi occidentali e in particolare della CIA ebbe maggior successo, la causa fu l’indebolimento della dominazione burocratica, ormai incapace (anche per la sua senescenza, dovuta al timore di qualsiasi mutamento) di assicurare il soddisfacimento dei bisogni di una popolazione più istruita ma esclusa da ogni partecipazione alle decisioni. La repressione a Berlino Est nel 1953, a Poznan e Budapest nel 1956, aveva rinviato ma non impedito il penoso epilogo. E se oggi gli imperialisti hanno trovato spazi imprevisti all’interno delle tensioni interne di ciascun paese investito dalle proteste popolari, non dipende da una loro maggiore abilità (come si può dedurre dal bilancio complessivo dei loro interventi) ma dalle lacerazioni provocate nella società dalla feroce resistenza degli esponenti del vecchio regime. Chi si vede massacrato senza pietà, finisce spesso per chiedere aiuto anche al diavolo. Era accaduto negli anni trenta, quando parte dei nazionalisti delle colonie francesi e britanniche avevano finito per chiedere aiuto ai “nemici dei loro nemici”, cioè all’Italia e alla Germania fasciste.

Era un grave errore, spiegabile, ma sempre un errore. E non per questo diventava logico, per reazione ad esso, difendere la feroce dominazione coloniale delle potenze “democratiche” Francia e Gran Bretagna, come fece la sinistra socialdemocratica e comunista al tempo dei Fronti Popolari (col risultato di contribuire alla sconfitta della Repubblica spagnola da parte delle truppe mercenarie marocchine, che sarebbe stato facile scompaginare con un riconoscimento del diritto all’indipendenza del Marocco, della Tunisia e dell’Algeria…). Ne scrivevo in uno dei molti saggi dedicati alla Rivoluzione spagnola presenti sul sito:

Il prezzo pagato per l’alleanza con i moderati sarà alto: si rinunciò, come in Francia, ad affrontare la questione coloniale, che in Spagna era ancora più importante. Riconoscere l’indipendenza del Marocco, sollecitata da esponenti democratici di quel paese, avrebbe tolto il terreno sotto i piedi a Franco, la cui forza principale erano i mercenari reclutati in quel paese tra gli strati più arretrati, nel clima di demoralizzazione seguita alle sconfitte delle insurrezioni indipendentiste.

Un aspetto ignorato dagli esaltatori retorici della “gloriosa Spagna”, che in genere evitano di spiegare la sua tragica sconfitta se non con l’azione della “Quinta Colonna” e l’impazienza degli estremisti, che non capivano che “bisognava prima vincere la guerra” rinviando a dopo (cioè soffocandola) la rivoluzione già in atto.

Ma torniamo al presente: gli Stati Uniti, preoccupati di perdere un’altra occasione a favore degli irrequieti alleati europei, stanno prendendo a pretesto l’uso delle armi chimiche sulla popolazione per intervenire bombardando la stessa popolazione siriana. Parte dei paesi europei, che forse (ma non è il caso dell’Italia) conoscono un po’ meglio la situazione, esitano; la Russia del cinico Putin, che ha contribuito a immettere nell’area anche gli arsenali chimici, si oppone e rende difficile un avallo delle Nazioni Unite (che comunque, screditate come sono, non avrebbero nessuna autorità morale, e ancor meno capacità militare per una vera interposizione); i pennivendoli rievocano come precedente utilizzabile l’intervento nel Kosovo, in cui assurdamente in mancanza di un voto dell’ONU si affidò la decisione alla NATO, cioè a un organismo di parte con un ambito teoricamente ben delimitato.

Giusto condannarli e opporsi a ogni appoggio anche indiretto (ad esempio concedendo agli aggressori l’utilizzazione delle basi dislocate in Italia). Ma come si fa da questo ad arrivare a difendere il regime di Assad o qualunque altro fosse scelto come bersaglio per una guerra imperialista rivestita da ipocriti pretesti umanitari?

Ci tornerò.

 

 

Leggi anche: Imperialismo, settarismo e rivoluzione siriana

 

 

 

Foto: Zeinab Mohamed/Flickr

 

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