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Elezioni in Egitto: un risultato contraddittorio

Le elezioni in Egitto sono state sicuramente truccate, a vari livelli. Ma che il risultato non fosse scontato è apparso chiaramente perfino dal lunghissimo e imbarazzato preambolo del presidente della Commissione elettorale (e della Corte costituzionale) Faruk Sultan, e dalle reazioni furibonde all’annuncio della vittoria di Mohammed Morsi di parte della sala, che non si aspettava che l’escluso fosse l’uomo dei militari, Ahmed Shafiq, che era dato da tutti per vincente. Shafiq era stato facilitato in vario modo al primo turno, sia escludendo preliminarmente alcuni dei suoi concorrenti più pericolosi, sia probabilmente aggiungendogli 900.000 voti fittizi, per farlo arrivare al ballottaggio, scavalcando il candidato della sinistra nasseriana, Hamdin Sabbahi.

Diversi commentatori, tra cui Samir Amin in un’intervista al Manifesto, danno per scontato che la vittoria di Morsi sarebbe stata preparata da un accordo tra il Consiglio Superiore delle Forze Armate e la Fratellanza Musulmana. Tutto è possibile, ma l’ipotesi è semplicistica: non c’è dubbio che il candidato ideale dei militari era il generale Shafik. Le possibili trattative nell’ombra possono aver preparato una soluzione di compromesso, per guadagnare tempo, e disinnescare la potenziale ripresa di tendenze laiche e di sinistra, presentatesi divise, ma con un peso notevole, non lontano da quel 25 o 26% dell’elettorato conquistato dai due maggiori contendenti. Una vittoria attribuita a tavolino al candidato dei militari (che era stato l’ultima carta giocata da Mubarak, prima di rassegnarsi alle dimissioni) poteva innescare una ripresa della dinamica rivoluzionaria che aveva pesato in molti momenti della storia delle mobilitazioni egiziane, trascinando i settori più radicali della Fratellanza Musulmana accanto ai giovani rivoluzionari laici.

L’incognita maggiore è proprio la Fratellanza Musulmana, un partito che è stato paragonato spesso a quello turco della Giustizia e Sviluppo, e come quello a una specie di “democrazia islamica” in cui la religione pesa quanto pesava nella DC italiana. Ma ha un forte radicamento popolare e una capacità di far politica consolidata nei lunghi anni di persecuzioni, e deve fare i conti anche con i suoi legami decennali con Hamas, la sua costola di Gaza.

Il primo gesto di Morsi è stato quello di rilasciare un’intervista all’agenzia di stampa iraniana Fars. Alcune affermazioni sono state, poi, parzialmente smentite da un portavoce, ma dato che gli intervistatori hanno la registrazione audio, l’effetto è stato di panico in Israele, di imbarazzo negli Stati Uniti e nei nostri servili quotidiani. Eppure è logico per un Egitto che voglia recuperare la sua piena indipendenza non partecipare alle campagne di demonizzazione dell’Iran pilotate da Israele e imbevute a volte di pregiudizi antislamici. Gli accenni alla revisione degli accordi di Camp David sono stati poi ridimensionati in parte, subordinandoli a una previa consultazione popolare attraverso un referendum, dall’esito però più che scontato: gli accordi con Israele, tanto cari ai vertici dell’esercito (che in cambio ricevono finanziamenti enormi dagli Stati Uniti), sono sempre stati rifiutati dalla stragrande maggioranza delle popolazione. È scandaloso che ci si scandalizzi sempre per una cosa normalissima, come le buone relazioni tra due grandi paesi vicini, o con interessi comuni (come tra Iran e Venezuela). Ma perfino alcune sacrosante osservazioni di Beppe Grillo sulla politica di Israele, in un’intervista un giornale israeliano, hanno suscitato commenti indignati… Eppure erano nella sostanza fondate, e perfino scontate.

Patetico invece il commento all’elezione di Mohammed Morsi (in un’intervista a “la Stampa”) di un immeritatamente famoso politologo, quel Francis Fukuyama della “fine della storia”, che tra le molte banalità, dice una verità: il governo americano non ha preso una posizione ufficiale nelle elezioni, perché “non c’erano molte alternative. La vittoria degli islamici non è la soluzione che avremmo voluto, ma la politica seguita nel passato di appoggiare le dittature non funziona più”. Che peccato!

Fukuyama ammette poi che i giovani hanno avuto un ruolo importante nel far cadere governi ma, con una tesi degna di Brunetta o della Fornero, dice che “poi non hanno la capacità e la voglia di assumersi le responsabilità e le fatiche necessarie a organizzare un partito, creare il consenso, vincere le elezioni e governare”. Sic.

Ma che il metodo cileno preoccupi molti politici egiziani è vero. In Egitto se ne è parlato molto, a destra ma anche a sinistra. Secondo Sadek Samer dell’American University del Cayro i militari (e forse lo stesso Tantawi) avevano richiesto bilanci della dittatura cilena, anche per le analogie tra le dubbie malattie di Pinochet e di Mubarak, utili per una uscita indolore dalla crisi della dittatura.

Anche Ammar Ali Hassan dell’Al-Ahram Center for Political and Strategic Studies ritiene logico che “i generali egiziani studino il Cile, un caso in cui il processo al regime si è chiuso con la morte dell’ex presidente lasciando la vecchia struttura al suo posto”. Quello che vorrebbero, ma non è assicurato…

Ma anche a sinistra, in un interessante articolo pubblicato in Spagna da “Sin permiso”, Mostafa Ali, editorialista de Ahram On Line e membro dei Socialisti Rivoluzionari egiziani, parla di un “pericolo cileno” per la rivoluzione egiziana, riferendosi però all’inizio e non alla fine di Pinochet; Ali fa anche un parallelo tra le sinistre egiziane e quelle tedesche nel 1932-1933, incapaci di opporre un fronte unico alla ascesa del nazismo. Ma ovviamente è sull’esempio del Cile che insiste, denunciando le illusioni di settori delle masse e degli stessi gruppi rivoluzionari organizzati sulla neutralità dei generali.

Bisogna attendere i primi passi del nuovo presidente per capire se manterrà le sue promesse, ad esempio quella di un capo di governo e di alcuni vicepresidenti non appartenenti alla Fratellanza Musulmana. Va detto anche che ovviamente l’inserimento di un copto, oltre a non essere una novità (si pensi al ruolo di Boutros Boutros-Ghali) può non essere automaticamente una garanzia, dato che non sono mai mancati copti ultraconservatori, e un’intesa tra islamici e cristiani può essere utile forse per fermare gli assalti alle chiese o alle moschee, ma non per garantire la libertà d’opinione a tutti, atei compresi...

Intanto segnalo la posizione di Larbi Sadiki, sempre sullo stesso sito : che manifesta un certo ottimismo ritenendo che la rivoluzione in Egitto ha fatto tre conquiste che potrebbero essere fatali per il CSFA: “Prima di tutto l’Egitto ora ha leader di tutti i colori politici. Il CSFA può non essersi accorto di questo dettaglio, ma ben presto si renderà conto che non è più solo e non può fare quello che vuole. In secondo luogo, la paura psicologica inculcata dall’apparato statale prima della rivoluzione con vari mezzi coercitivi, si è dissipata come la nebbia nelle mattine d’inverno nelle strade e nelle piazze della resistenza. Questa resistenza, di cui traspare ora la stanchezza, potrà tornare a rianimarsi e a riempire la piazze d’Egitto incalzando ancora una volta l’atteggiamento ostile del CSFA. Per ultimo, l’integrazione degli islamisti nel processo politico è già inarrestabile, e nonostante tutte le sue imperfezioni, offre un polo formidabile e un baluardo contro lo Stato profondo”.

Quest’ultima considerazione apparirà incomprensibile a quei settori della sinistra italiana che avevano accettato in Algeria la violenta soppressione del FIS e dello stesso diritto di voto a metà scrutinio, col risultato di rinchiudere nelle carceri gli elementi con cui sarebbe stato possibile un dialogo, lasciando il movimento nelle mani di estremisti sempre più incontrollabili. E naturalmente la frase sembrerà strana anche a chi considera ogni movimento islamico il male assoluto, in sé.

Più convincente l’atteggiamento di Mohammed Hashem, direttore della maggiore casa editrice di opposizione, che diceva, già prima di conoscere i risultati “Abbasso il nuovo presidente”, e continua a dirlo, ma se teme le ingerenze di Morsi nella vita privata di tutti, osserva poi che tutti “le affronteranno in un contesto di legalità: faranno opposizione all’interno della dialettica politica”. Invece in caso di vittoria di Shafiq “lo scontro sarebbe stato più violento. Nessun rivoluzionario avrebbe creduto alla validità delle elezioni. Tutto sarebbe stato ancora più difficile”. Hashem non ha votato, ma una parte della sinistra, il Movimento del 6 aprile, per queste ragioni ha scelto Morsi come male minore.

Mohammed Hashem però mentre ribadisce che tutti e due i candidati erano inaccettabili per un rivoluzionario, aggiunge che se guarda al futuro, è piuttosto ottimista, tanto nel breve che nel lungo periodo. “In occasione dell’anniversario della rivoluzione sono arrivare milioni di persone, e hanno trovato lo zoccolo duro dei rivoluzionari che non hanno mai ceduto e hanno continuato a lottare, giorno dopo giorno. Molto è cambiato da quando, nel 2004 e 2005, solo centinaia di artisti e attivisti si trovavano davanti al sindacato dei giornalisti per criticare il regime. Erano accerchiati da cordoni di poliziotti. Ora un popolo intero ha abbattuto la barriera della paura e nessuno la potrà ricostruire”. (intervista apparsa su “il Messaggero” del 15/6/12)

E quanto alla sua casa editrice, osserva che “nessuno è riuscito farmi tacere fino ad ora, e non ci riusciranno certo adesso. Dal 25 gennaio 2011 l’Egitto è un paese che si è aperto, si è liberato da una cappa che l’opprimeva e nessuno potrà tapparci nuovamente la bocca”. Un atteggiamento migliore del fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Ma non tutto l’ottimismo è condivisibile: Hashem conclude dicendo che “le idee circolano liberamente. Chi potrà bloccarle? Non si può fermare la rivoluzione che è iniziata. È un percorso irriversibile”. Ma l’esperienza storica dimostra che molte, troppe volte, le rivoluzioni sono state soffocate nel sangue o si sono disperse per gli errori dei protagonisti. In ogni caso, saremo vicini all’Egitto…

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