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 Home page > Attualità > Cultura > Caio Fernando Abreu attraverso gli occhi del traduttore Bruno Persico - (...)

Caio Fernando Abreu attraverso gli occhi del traduttore Bruno Persico - parte II

 

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..............................................................................................[...] e di nuovo mi vieni a parlare del mare aperto lungo le coste della tua terra, del vento gelido che spira dal polo, durante gli inverni, senza alcuna baia, nessun gabbiano o albatros che sorvoli raso il grigiore delle acque per poi tuffarsi a volte, in un punto qualsiasi, e infilzare rapido un pesce con il becco aguzzo, ma quelle altre acque di cui mi ricordo erano chiare e verdi, c'era il sole e credo anche un riflesso argenteo sul becco dell'uccello nel momento esatto del tuffo, (...)
(pag.37, incipit racconto 'In riva al mare aperto')

***

[La prima parte QUI]

 
***
 
Nel libro I draghi non conoscono il paradiso, nello specifico, i racconti hanno identità proprie, in alcuni casi sono anche scritti con ritmi, registri e scelte stilistiche e strutturali differenti. Nell’originale, Le è sembrato che Abreu fosse più concentrato sulle ‘diversità individuali’ o sulle ‘sottotracce comuni’? Quanto il Suo lavoro si è concentrato sul tradurre intenti diversificativi e quando invece ha ritenuto di restituire nella traduzione italiana elementi e caratteristiche volte a individuare le specifiche stilistiche e linguistiche dell’autore?
 
Credo che uno dei motivi che animano l’intera produzione di Abreu sia l’indagine del rapporto tra ordine e caos, indagine che ha trovato piena espressione nel racconto “Dodecaedro” della raccolta “Triângulo das Águas” del 1991, secondo me il (pur controverso) capolavoro assoluto di Abreu, alla cui traduzione sto lavorando per puro diletto. Per estensione possiamo dire che i racconti di Abreu sono costanti traduzioni letterarie del caos di emozioni, passioni e dannazioni della complessa natura umana, a cui l’autore cerca di porre un ordine in quelle che Lei ha definito “sottotracce comuni”, le idee portanti che trovano espressione nei progetti letterari di ciascuna delle sue raccolte, che in tal modo smettono di essere semplici “raccolte” per tendere a un motivo di ordine superiore. Per l’autore, ordine e caos sono due aspetti dello stesso intento letterario, non credo che egli privilegiasse l’uno a discapito dell’altro. Nella traduzione italiana ho quindi sempre curato, come dicevo prima, di rispettare e riprodurre l’estrema varietà di toni e ritmi della scrittura di Abreu, pur cercando di caratterizzare la sua voce in modo da renderla inconfondibile per efficacia, incisività, ironia, musicalità e pregnanza.
 
È corretto secondo Lei considerare questa raccolta un assemblaggio i cui sapori diversi sono anche dovuti ai diversi momenti di scrittura, intenzioni e probabilmente idee precise sui singoli racconti?
 
Un critico letterario di São Paulo, Nelson Luís Barbosa, definisce la scrittura di Abreu una “autoficção”, una scrittura cioè che riunisce fatti biografici e fatti fittizi elaborati dal linguaggio, e per questo si differenzia da una mera scrittura autobiografica. L’elemento biografico e personale, pur non dominante, è comunque presente e a volte costituisce lo sfondo su cui Abreu imbastisce le proprie storie. Il racconto “L’altra voce” de “I draghi”, dal clima claustrofobico e appannato, il cui protagonista vive in uno spazio isolato dal mondo esterno che all’imbrunire viene invaso da strane presenze, è stato scritto nel periodo successivo al suicidio della poetessa brasiliana Ana Cristina César, a cui Abreu era molto legato e la cui morte lo ha segnato profondamente. Il racconto “Nostalgia di Audrey Hepburn”, sempre de “I draghi”, è la rielaborazione allucinata di un incontro con un altro poeta, Ricardo Redisch, di cui Abreu si era invaghito, mentre nel racconto che apre la raccolta, “Linda, una storia orribile”, l’autore traspone sull’io narrante i propri timori che sfociano in certezza di essere ormai contaminato dal virus dell’Aids, creando forse uno dei primissimi testi letterari in cui la malattia, pur non essendo mai menzionata, ne è protagonista. I racconti de “I Draghi”, pubblicati nel 1988, sono di certo il frutto di un lavoro quasi decennale di un autore in costante osservazione della mutevole realtà che vive in prima persona e che sublima attraverso la sua arte letteraria. Come dice lui stesso, sono i diversi momenti di cui si compone idealmente l’eterna dicotomia tra eros e thanatos, veri motori della vita. Idea questa che Abreu sottolinea dedicando la raccolta a persone ormai non più in vita e, nel contempo e nonostante tutto, alla vita, e organizzandola intorno al tema dell’amore in molte del le sue sfaccettature.
 
Linguisticamente, qual è stata la difficoltà principale durante la traduzione?
 
Riprodurre in italiano la stessa fluidità e musicalità della scrittura di Abreu, in modo che alla sua lettura anche il caos di cui parlavo prima appaia armonioso e cristallino, tanto da rendere il più naturale e veritiero possibile anche il più complesso dei personaggi e delle situazioni. Abreu attribuiva un’importanza fondamentale alla scelta di un linguaggio appropriato, che fosse essenziale, luminoso e quasi zen come molte delle sue storie, per giungere alla creazione di un testo in cui nulla fosse fuori posto e in cui non ci fosse bisogno di togliere o aggiungere neanche una virgola. Per questo sottoponeva ogni testo a un lavoro di estrema limatura, lo leggeva a voce alta per assaporarne la musicalità e lo consegnava alla stampa solo quando era sicuro di possederne e dominarne la magia. Ed è quello che cerco di fare anch’io: sottopongo il testo italiano allo stesso lavoro di rifinitura, che può durare anche settimane o mesi. 
 
Qual è stato il racconto che più L’ha colpita traducendolo, senza per questo sminuire gli altri?
 
Ciascun racconto mi ha colpito con eguale intensità, ma per una serie di motivi ogni volta diversi. Ad esempio mi sono divertito molto a tradurre “Scarpette rosse”, una dissacrante rielaborazione in chiave post-moderna della fiaba di Andersen, nel quale la protagonista decide di abbandonarsi al sesso sfrenato con tre uomini contemporaneamente nella notte del Venerdì Santo. Mi ha divertito l’ironia con cui l’autore osserva il comportamento di un personaggio fondamentalmente tragico, tanto da rendere spassosa anche la cruda descrizione dei multipli amplessi. E mi ha molto appassionato la traduzione di “Bella di notte”, un testo che un giorno vorrei tanto vedere rappresentato in versione teatrale: si tratta di un monologo drammatico in cui una donna attempata (forse un travestito) che ha già provato tutto nella vita e che, pur essendo priva di illusioni, continua a vivere nell’attesa del Vero Amore, parla di sesso e di morte con uno dei tanti ragazzini che popolano i locali notturni di una qualsiasi metropoli. È stato emozionante dar voce a un personaggio che per vigore e veridicità sembra quasi uscire dalle righe del testo per materializzarsi in carne e ossa. Per un altro motivo mi ha anche colpito l’approccio che ho avuto alla traduzione di “L’altra voce”, nel senso che quando iniziai a tradurlo, dopo averlo letto almeno quattro o cinque volte, continuava ad essere un campo minato pieno di zone d’ombra e nell’insieme alquanto misterioso. E lo è ancora oggi. Ma nonostante questo, e qui sta lo stupore, è un testo che funziona e possiede una propria magia. 
 
Qual è l’aspetto che secondo Lei è meno dibattuto e riconosciuto nel lavoro del traduttore letterario? È cambiato qualcosa da quando ha iniziato questo mestiere, sia nell’ambiente culturale italiano quanto nelle gestioni editoriali del lavoro di traduzione?
 
Il traduttore dovrebbe essere considerato un co-autore, ma continua ad essere un ghostwriter la cui importanza non è pienamente riconosciuta sia nella remunerazione che nel rispetto professionale (quando, ad esempio, in una critica si cita un titolo e il suo autore straniero, ma si tralascia il nome del traduttore). Se il traduttore è lui stesso autore affermato, il trattamento è ovviamente diverso. Da quando iniziai a tradurre per l’editoria, nel 1995, ho notato che tendenzialmente sono gli editori minori ad avere maggior consapevolezza del ruolo e dell’importanza del traduttore, anche se ciò non si traduce, per ovvie ragioni, in un corrispondente maggior riconoscimento pecuniario. Con i due editori con cui ho pubblicato Abreu, Zanzibar nel 1995 per “Molto lontano da Marienbad” e Quarup nel 2008 per “I draghi non conoscono il paradiso”, la collaborazione è stata ed è eccellente, e grazie al mutuo lavoro di revisione credo si sia arrivati alla produzione di edizioni di alta qualità che rispettano e valorizzano in toto la figura e il ruolo di un autore come Abreu.
 
 
Ringrazio Bruno Persico.

Commenti all'articolo

  • Di Alessandro De Caro (---.---.---.17) 6 maggio 2011 19:24
    Alessandro De Caro

    Mi sembra che definire il traduttore, come fa Bruno Persico, un "co-autore" dell’opera è quantomeno depistante se non scorretto: la traduzione è un servizio editoriale, fino a prova contraria, non un atto poetico o artistico. E anche se lo fosse, e in certi casi eccelsi probabilmente lo è diventato (penso a certi traduttori di Paul Celan o alle opere di ermeneutica letteraria di Yves Bonnefoy su Rimbaud) ciò non dovrebbe essere espresso con la tipica supponenza professionale che vediamo in giro...E dire che una delle qualità principali di un buon traduttore dovrebbe essere la capacità di ascolto, quel saper sparire nella frase altrui che gli fa senz’altro onore.

  • Di BarbaraGozzi (---.---.---.201) 7 maggio 2011 14:02
    BarbaraGozzi

    Ringrazio il signor De Caro per il punto di vista, che la traduzione sia un mero ’servizio editoriale’ meriterebbe ulteriori spiegazioni, per come la vedo io (fino a prova contraria in che senso, scusi? Chi deve provare il contrario o sostenere l’affermazione?)
    C’è dietro la traduzione un vero e proprio ’territorio’ che dipende dalle capacità del traduttore (evidentemente) quanto le sue individuali sensibilità, a volte dipende anche dalle richieste del committente la traduzione (spesso una casa editrice).
    Ad ogni modo, senza dilungarmi qui, che il lavoro di traduzione sia considerato un’opera d’ingegno non lo dico io ora per la prima volta men che meno che - senza generalizzare e volerlo sostenere per tutti e in ogni contesto anche editoriale - men che meno, dicevo, che ci siano nel lavoro di traduzione nervature artistiche.
    Cordialmente,
    Barbara Gozzi

  • Di Alessandro De Caro (---.---.---.54) 9 maggio 2011 11:20
    Alessandro De Caro

    Sono d’accordo con lei quando scrive che "c’è dietro la traduzione un vero e proprio ’territorio’ che dipende dalle capacità del traduttore (evidentemente) quanto le sue individuali sensibilità". Infatti io non nego l’aspetto creativo della traduzione. Ma credo che esistano dei confini che non vanno superati nel nome di un "diritto" che non c’è, quello di sostituirsi all’autore o di fare come se si fosse autori dell’opera. Mi riferivo, quindi, esclusivamente al termine, piuttosto equivoco, di "co-autore" utilizzato dall’intervistato, dato che non è ammesso da nessuna parte (in termini legali oltre che poetici) che il traduttore sia autore di ciò che traduce...In questo senso parlavo di servizio, editoriale o meno. Ciò non toglie nulla al mestiere del traduttore, mi sembra.

    Cari saluti,
    Alessandro De Caro

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