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Breve excursus su ’Narrare - Dall’Odissea al mondo Ikea’ di Davide Pinardi - parte II

La prima parte QUI.
 
 
“Una delle modalità utilizzate più frequentemente per falsificare una narrazione (senza attribuire, in questo contesto, un giudizio necessariamente negativo al termine falsificare) è proprio quello di modificare i rapporti gerarchici tra i segni che essa utilizza e la sintassi che li lega fra lori […] Accade alle grandi produzioni cinematografiche – con fallimenti altrimenti inspiegabili – e accade soprattutto alle grandi narrazioni politiche, giuridiche, storiche, scientifiche ecc.” (pag.23)
 
Data l’ampia materia affrontata da questo saggio, l’autore stesso dà voce a quella che potrebbe essere una domanda frequente nel lettore: Perché usare la parola narrazione e non altre?
 
Personalmente, dal momento in cui le prime venti-trenta pagine chiariscono i significati dei termini, contesti e approcci, mi sembra inutile andare a cercare altrove, altri termini, altri significati, altri distinguo. Ma Picardi ha ragione, la materia è complessa, diramata, sfaccettata e suscettibile di ‘aggressioni linguistiche quanto semantiche e contestuali’. Viviamo in un tempo ricco di potenzialità ma facilmente arido di comprensioni. E spesso la difesa più accreditata è proprio l’attacco, in questo le parole come ogni altro segno e forma comunicativa se presteranno sempre a repliche, differenti interpretazioni, confusioni, varianti.
 
Tornando alle responsabilità, c’è indiscutibilmente una responsabilità inalienabile in chi produce narrazioni, di qualunque narrazione si tratti e per qualunque ragione, finalità, obbiettivo, contenuto: la responsabilità di scegliere come farlo. Spesso ‘quando’ narrare e per quali ragioni farlo, non sono elementi che si scelgono consapevolmente (magari vengono imposti dal contesto professionale, le dinamiche del mestiere, o magari siamo noi stessi a imporceli per difenderci, per proteggere qualcun altro, per dare all’esterno una precisa ‘immagine’ di noi stessi, oppure è il momento a imporre un quando e un perché).
 
Il problema però, di queste responsabilità del narratore, sta nel riconoscerle, dunque in un qualche modo anche il narratario contribuisce direttamente al loro riconoscimento (se non al rispetto o all’ammissione di aver mancato). È comunque un legame, quello tra narratore e narratario, che non si recide solo perché i soggetti non si conoscono o perché non vorrebbero riconoscersi ruoli e per l’appunto doveri. È un legame poggiato sul tacito accordo che sta alla base delle narrazioni, un accordo ancor più ‘primitivo’ ovvero quello tra emittente e destinatario, un accordo senza il quale non ci sarebbe contatto, non ci sarebbe possibilità di comunicare, di trasmettere ‘un codice’ di qualunque tipo, forma, senso e ragione.
 
“Capita infatti che giornalisti, storici, operatori del diritto, analisti finanziari, filosofi, antropologi, scienziati, sociologi, politici ecc. celino le proprie individuali responsabilità di soggetti narratori attribuendo ai propri racconti una natura di oggettività perché questo, automaticamente, dovrebbe esimerli da responsabilità personali o di gruppo: parlerebbero quasi de relato, come ambasciatori che non portano pena. Essi raccontano fatti, dimenticando il fatto che i fatti non esistono più, immediatamente dopo l’essere (forse) avvenuti, se qualcuno non li rappresenta raccontandoli.” (pag. 74).
 
Pinardi qui apre una ferita perennemente aperta.
Ovviamente il discorso articolato nel saggio è ben più complesso e diramato. Ma poggia su un sunto a mio avviso comprensibile a prescindere: nel momento in cui raccontiamo una realtà la stiamo soggettivizzando. Anche lo spettatore ignaro di un incidente, nel momento in cui telefona all’amico per dirgli ciò a cui sta assistendo (dunque privo dell’eventuale malizia del giornalista che vuole speculare sulla tragedia, o l’assicuratore che vuole minimizzare le cause, o uno del partecipante l’incidente che tende a cancellare le proprie tracce e così via…); anche lo spettatore ignaro, mente dice sta costruendo immagini di quella realtà e le sta trasmettendo all’amico. Sta narrando. E non c’è nulla di oggettivo in quello che fa. Ma è necessario riconoscere tutto questo, esserne consapevoli.
 
Ecco che il giornalista che imposta il proprio pezzo di cronaca nera assecondando maggiormente il punto di vista della famiglia della vittima, sta narrando in modo diverso dal collega che scriverà proponendo i fatti dal punto di vista dello spettatore (assecondando magari ‘ciò che si aspetta’ il comune senso della morale sociale) o da quello della vittima stessa o ancora seguendo i fili di chi pare essere il probabile colpevole ecc.
Il lettore, d’altro canto, leggendo l’articolo e non riconoscendo la narrazione accetta una relazione passiva, subordinata e dipendente con il narratore. Accetta di non sapere e il saggio di Pinardi ce la mette tutta a ‘smuovere neuroni’ (espressione della scrivente).
 
In chiusura di questo breve excursus, mi sembra centrale proporre un accenno al rapporto tra ‘realtà-verità-narrazioni) avendo fin ora tentato di decostruire alcune delle più comuni certezze (o presunte tali):
 
“La verità di una narrazione di realtà non sta nella sua corrispondenza o, addirittura, in una sua impossibile perfetta adesione a un oggetto esistente di per sé, un oggetto che, come osservato, paradossalmente potrebbe anche non esistere; bensì nel fatto che quella narrazione cerchi di essere coerente, onesta (anche nel senso di una tensione alla completezza) e fedele. L’unica sua verità non risiede dunque nell’esistenza oggettiva dell’oggetto reale narrato ma nella serietà con cui è stata realizzata la narrazione che lo vuole rappresentare e comunicare.” (pag.19)
 
Ancora nulla di nuovo, non credo che Pinardi con questo saggio intenda affermare la paternità di idee e ragionamenti ‘neo-nati’. Leggendo e analizzando questo testo ho avuto l’impressione che ogni energia sia concentrata e dedicata al seguire fili precisi, esporre connessioni, ed implicazioni già presenti altrove (magari in diversi ‘altrove’, specie se si considera il world wild web) ma meno frequentemente proposte assieme.
Talune affermazioni sembrano perfino banali. “Figuriamoci se chi scrive del terremoto a Pinco Palla non deve anche essere coerente, onesto e fedele? O chi racconta la propria esperienza dopo aver rischiato di morire a Pinco Palla? O chi espone le proprie convinzioni in merito alla legge Pinco Palla che contribuirà a far approvare? O, ancora, chi nel suo spazio web resoconta l’esperienza vissuta a Pinco Palla?”.
 
Il narratore decide come narrare, a volte anche quando e per quali ragioni. Comunque decide.
E il narratario decide in che modo approcciarsi alle narrazioni: cosa capire, cosa trascurare, se assorbire, reagire, decodificare.
Comunque sia, narrare esisterà finché esisterà la specie umana.
Converrebbe smettere di combatterlo, il narrare, smettere di ignorarlo, dargli tanti nomi e costruire barriere ad atrofizzare menti, stabilire fin dove arrivare con le comprensioni quanto imporre le regole dei singoli contesti. Le cose vanno come le vogliamo far andare. Pincardi offre una finestra sulle possibili panoramiche delle cose, sulle possibilità che ognuno può avere in quanto narratore e narratario. Dopotutto, ognuno impone e subisce narrazioni nel corso della sua vita.
 
Che si sia d’accordo o meno, con gli enunciati di Davide Pinardi in ‘Narrare – Dall’Odissea al mondo Ikea’, leggetelo e fatelo leggere.
È un ottimo oggetto narrativo per dibattiti o lezioni (alle Superiori quanto all’Università), ma anche per chiacchiere in salotto, incontri letterari. Lo ribadisco: non tanto perché Pinardi esponga teorie inattaccabili, quanto proprio per il suo contrario. Perché comunque questo saggio comporta l’uso del ‘pensiero critico’ che si auspica sia libero e autonomo.
È un ottimo strumento per affrontare ogni potenziale oggetto narrativo avendo nel proprio sguardo qualche strumento in più a cui attingere all’occorrenza (ma anche, qualche dubbio in più).
 
Strutturato per capitoli, per essere semplice nei collegamenti quanto negli argomenti, propone continuamente rimandi a parole-chiave o frasi particolarmente significative. Può apparire eccessivamente zelante nel voler sottolineare e mettere in evidenza concetti centrali, enunciati e ragionamenti a costituire basi per altre riflessioni. Indubbiamente è un saggio strutturato, mirato, lucido e intensamente maturato.
 
 
***
Segnalo PaginaUno, nata nel 2007 come rivista bimestrale, ha avviato un percorso di pubblicazioni 'mirate' di saggistica con il libro di Pinardi nel 2010 e di narrativa con una'ltro libro di Walter Pozzi nel 2011. Proprio Pozzi assieme a Giovanna Cracco, pubblicò una presentazione alla rivista, agli intenti di chi ne fa parte, che annunciava nel febbraio 2007: "Si tratterà di riconquistare uno spazio perduto".
Non so se nell'agosto 2011 è possibile riconsiderare gli obbiettivi fissati dal gruppo di PaginaUno che si dedica con passione alle analisi politiche, di cultura e letteratura. Eppure ventitre numeri pubblicati della rivista, concorsi, libri, una scuola di scrittura e iniziative varie, mi sembrano comunque fatti.

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