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Brasile: Lula tenta un bilancio e riscopre i suoi maestri

Continuano a uscire articoli sul Brasile che insistono sulla descrizione delle malefatte del potere giudiziario, denunciano le scandalose esternazioni del presidente Bolsonaro contro i popoli originari o contro i desaparecidos, ma evitano di prendere in esame anche il bilancio delle presidenze di Lula e Dilma. Lo fa anche Perry Anderson sul numero di settembre di “Le Monde Diplomatique”, che dedica due pagine a una ricostruzione minuziosa del comportamento dei “giudici giustizieri” ma non spiega le ragioni della insufficiente mobilitazione a sostegno della vittima del complotto.

Fa eccezione un vecchio giornalista italobrasiliano, Mino Carta, che aveva già incontrato Lula in carcere nel lontano 1980, e che ora lo ha intervistato a lungo nella Sovrintendenza della Polizia federale di Curitiba, incalzandolo con domande precise e incisive. L’intervista è molto lunga e non tutta ugualmente interessante ma è disponibile integralmente (in spagnolo) sul prezioso sito uruguayano. Vale comunque la pena di riprenderne i passi principali.

La prima parte rivela soprattutto l’ottimismo di Lula, che non vuole sconti sulla pena perché è sicuro che prima o poi sarà riconosciuto come vittima di un golpe che lo ha demonizzato insieme al PT, il suo partito.. “Non sono mai riuscito a capire perché l’operazione Lava Jato si trasformò in una istituzione, nel 2014” dice, ma pensa solo a un intervento esterno della segreteria di Giustizia degli Stati Uniti. Lo scopo, ripete più volte, era di impedire che Lula si ricandidasse, per poter spezzare le imprese di ingegneria in Brasile, e anche l’industria del petrolio e quella navale, “in modo che, analogamente a quello che è accaduto in Irak, le industrie americane e altre europee venissero a fare qui quello che facevano quelle brasiliane. E questo è quel che sta accadendo ora.”

È qui necessaria una precisazione: è vero che, quando ne hanno la possibilità, i capitalisti approfittano di qualsiasi occasione per rapinare un paese indebolito, ma bisogna spiegare anche come mai per anni le gigantesche imprese multinazionali brasiliane Petrobras, Odebrecht, ecc., che Lula sponsorizzava come presidente e anche durante la presidenza di Dilma Roussef, hanno operato in tutto il continente americano e in molti paesi africani indisturbate ed anzi in piena collaborazione con grandi imprese degli Stati Uniti. La svolta che consente l’operazione descritta da Lula avviene appunto tra il 2013 e il 2014, dopo le grandi manifestazioni giovanili contro l’aumento delle tariffe del trasporto urbano e lo sperpero di miliardi per Olimpiadi e Mondiali di calcio che erano state duramente represse, ma avevano portato alla luce un forte distacco tra il governo e la sua storica base sociale popolare: è questo che ha incoraggiato il cosiddetto “golpe”. Un distacco dovuto soprattutto al brusco cambiamento della congiuntura economica per la caduta del prezzo del petrolio, della soia e di altre materie: si erano ridotti i margini per la politica assistenziale che per una decina di anni aveva garantito consensi tra gli strati più poveri senza toccare i profitti capitalistici.

Ma Lula alle manifestazioni accenna solo una volta, di sfuggita, mentre insiste sul tema “demonizzazione del PT”, che fa partire dall’esplosione del primo scandalo, quello del Mensalão del 2005. Ma è un uso improprio e vittimistico del termine “demonizzazione”: si trattava di normali attacchi politici al PT dopo che alcuni suoi dirigenti erano stati scoperti (e filmati) mentre acquistavano in contanti i voti di vari parlamentari di centro e di destra. Attacchi che non avevano fatto traballare il governo, tanto è vero che ha mantenuto un certo consenso popolare ancora per diversi anni. Le cifre di queste “mensilità” apparivano evidentemente un problema minore a chi apprezzava la politica sociale del governo, e ancor più alle imprese capitalistiche grandi e piccole che in quegli anni hanno ricevuto facilitazioni di ogni genere, e si sono rafforzate, come ammette lo stesso Lula.

Intanto ci si abituava alla corruzione, dapprima per assicurarsi pacchetti di voti indispensabili per governare senza una propria maggioranza solida, poi generalizzata per la convinzione che l’estensione del fenomeno e l’allargamento della platea dei beneficiari garantisse l’impunità a tutti.

L’intervista si dilunga su molti particolari, con qualche reticenza di Lula, sia su Dilma, sia e soprattutto su Haddad, il candidato del PT battuto da Bolsonaro, di cui Lula non riesce a spiegare uno strano elogio del grande accusatore Moro alla vigilia delle elezioni. Mino Carta ripete la domanda che rimane senza risposta, e anzi viene deviata cambiando discorso: Lula infatti sostiene che secondo lui “molto denaro che gli impresari dicono di aver pagato come tangenti o mazzette, in realtà era evasione fiscale”. Può essere anche vero, ma non c’entra. D’altra parte Lula si stupisce che non si indaghi su questo ma spera che lo si faccia: evidentemente si illude in una neutralità della magistratura che non esiste in nessun paese, e meno che mai in un paese dalle contraddizioni sociali così clamorose. E mostra di non capire la domanda di Carta sulla rinuncia alla nomina di 13 magistrati del Tribunale supremo: “Non si possono nominare i giudici scegliendoli tra i compari. Non sono avvocato, non conosco i nomi. Consultavo gente importante, guardavo il curriculum e la traiettoria, ma non mi sono mai seduto con qualcuno per chiedergli appoggio”. Così, ascoltando i suggerimenti di “gente importante”, sono venuti fuori i giudici che hanno realizzato il “golpe giudiziario”...

Quando accenna al successo delle opposizioni, risponde con una considerazione banale: “la gente, a volte, ha fretta”..., ma non ammette nessuna responsabilità negli “aggiustamenti” neoliberisti di Dilma anche se ammette che “cominciarono a creare un problema nella nostra base”.

Lula rivendica anche di non aver toccato l’apparato statale ereditato dai predecessori, anche in polemica con Hugo Chávez: “Io gli dicevo: in Brasile non possiamo fare quel che fa lei, perché il Brasile non è mio. Non posso nominare un mio amico nella Corte suprema, o designare un procuratore amico”. E ribadisce: “la mia formazione politica non mi permetteva di farlo”. E conclude auspicando che “la polizia federale si dovrà pentire della sciocchezza che ha fatto lavorando per Bolsonaro”. Beata illusione...

L’accenno alla sua “formazione politica” ci porta alla parte più interessante dell’intervista. Parte da un’apologia del PT, che riporto integralmente.

È di moda oggi dire: “dobbiamo farla finita con questa polarizzazione tra il PT e non so chi”. Tra il PT e Bolsonaro. È spiritoso. Quando erano quelli del PSDB che polarizzavano con noi, non volevano eliminare questa polarizzazione. Il PT è il maggior partito del paese. Il PT sta oggi affrontando un dibattito interno in quattromila municipii. Sono 4.000 direzioni locali che devono votare nelle elezioni dirette per il presidente del partito. Sono quasi due milioni e mezzo di iscritti. Il PT non è un’ammucchiata di interessi elettorali come il PSL [il partito di Bolsonaro]. Se Bolsonaro perde le elezioni, il PSL finisce, si disfa come se fosse di farina. Come il PRN di Collor. Il Brasile ha solo un partito nel senso proprio della parola, organizzato, con decisioni nazionali, il PT. Ci sono anche altri partiti, come il PCdoB, storico, e impegnato fin dal 1922 a discutere col PPS per sapere chi è più vecchio. Il resto [dei partiti] non va oltre le sigle elettorali. C’è gente che cambia partito come se cambiasse le mutande. Ho molto orgoglio di quel che il PT ha fatto. E se il PT si è sbagliato, che paghi per i suoi errori.

La frase finale è ingenerosa (gli eventuali “errori” sarebbero solo del partito, non del suo massimo dirigente), ed è anche sgradevole la cancellazione del PSOL (un partito costruito dai tanti espulsi dal PT, il partito di Marielle Franco, che ha superato il PT in città importanti). Ma è ancor peggio quel che Lula risponde al giornalista che gli dice che “il PT non riuscì effettivamente a creare una coscienza civica in molta gente”.

Mino [Carta], discuto molto di questo con i compagni. Io non sono stato eletto per formare coscienza ideologica, ma per governare il Brasile. È il PT che dovrebbe aver tratto vantaggio dalle cose buone che abbiamo fatto, facendo crescere la coscienza.

E a questo punto Lula spiega qual è stato il suo itinerario politico, e in che ambiente si è formato:

Ho cominciato la mia vita politica come ammiratore del PCI. Credevo che il Partito Comunista Italiano fosse quanto di più perfetto ci fosse come organizzazione politica. Ho avuto il piacere di sedermi a tavola accanto a Enrico Berlinguer. Ho conosciuto bene il PCI, ed ero un suo sostenitore entusiasta. Poi mi sono reso conto che non superava il 30% o 33% nelle elezioni.

Il giornalista lo interrompe dicendo che arrivò al 36%, ma a Lula non interessa, e sostiene anzi di essersi convinto che “il PCI non voleva vincere le elezioni”. Mino Carta, che è un buon riformista, insiste che il PCI tuttavia “aveva un progetto di alleanza”, ottenendo una spiegazione delle scelte del PT che le riconduce di fatto al modello di compromesso storico.

È successo lo stesso con il PT. Quando mi presentai per il quarto tentativo avevo capito che non potevo essere candidato, dato che avevo solo il 30%. Avevo bisogno del 50% più uno. Da questo scoprii il mio capolavoro, la candidatura come vicepresidente di José Alencar.

Lula si commuove parlando di Alencar, l’imprenditore e politico che fu vicepresidente dal 1° gennaio 2003 al 31 dicembre 2010, che definisce “imprenditore di prima classe” e che rimpiange confrontandolo col successore Temer, che sarà il regista e primo beneficiario della destituzione di Dilma Rousseff. In realtà la lealtà di Alencar non era solo una scelta personale, ma era parte di un atteggiamento benevolo (non disinteressato) di un largo settore della borghesia che accettava un “presidente operaio” che garantiva la pace sociale con il suo prestigio e con la distribuzione di una piccola parte degli enormi profitti di quegli anni, in cui Lula era ospite d’onore di Bush e la banca brasiliana concedeva generosi prestiti alla Banca Mondiale.

La riprova è che Michel Temer era stato scelto da Lula con gli stessi criteri usati per la nomina di Alencar, e aveva cambiato atteggiamento solo dopo due anni, quando risultò evidente che il PT non era più in grado di controllare le proteste sociali. D’altra parte in diversi punti della lunga intervista Lula sostiene di aver fatto sempre quello che era possibile e necessario. “Non sono un conciliatore”, dice, “ lo sarei stato se avessi fatto una guerra, ucciso la metà degli avversari e, dopo aver vinto, fossi andato a trattare”. Ma dato che “avevo vinto elezioni nelle circostanze che c’erano, e su 513 deputati ne avevo 91, e 10 senatori su 81, non c’era conciliazione, c’era solo da contrattare per governare. È così in tutto il mondo”.

Già, ma in tutto il mondo “così” si sono trasformati momentanei successi elettorali in accordi logoranti che hanno deluso la base e quindi facilitato le controffensive conservatrici.

Lula in tutta l’intervista ribadisce lo stesso concetto: non potevamo fare che così, perché altrimenti non saremmo arrivati al governo: ma vale la pena di arrivare al governo per lasciare poi il paese nelle mani di un Bolsonaro?

Non sembra che Lula se ne preoccupi molto, dato che secondo lui la vittoria di Bolsonaro deve essere “relativizzata”: ha avuto il 55% dei voti validi, ma “corrispondevano al 39% dell’intero corpo elettorale, quindi il 61% del popolo ha detto no a Bolsonaro”. Chi si accontenta gode.

(a.m.)

Per gli antefatti e la storia del PT, nel sito ci sono molti articoli, tra i quali segnalo questo

 

Foto: Agencia Brasil/Wikipedia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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