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Biden-Harris: una coppia senza fronzoli

Il panorama politico americano sembra, a una prima occhiata superficiale, avviato a replicare le elezioni 2016.

Perlomeno in campo democratico. Un candidato che più “establishment” non si potrebbe (come lo era Hillary Clinton) che si sceglie un vice-fotocopia, ma di sesso opposto: Tim Kaine nel caso della Clinton e Kamala Harris in quello di Biden.

Nel 2016 la scelta fu contestata dalla sinistra che aveva appoggiato Bernie Sanders alle primarie e dagli ecologisti duri e puri del Green Party di Jill Stein (che, non rinunciando alla corsa in solitaria per le presidenziali, di fatto regalò a Trump, il meno ecologista dei presidenti americani, i grandi elettori di tre stati chiave – Wisconsin, Pennsylvania e Michigan – e, con essi, la presidenza).

Oggi la scelta è contestata dalla sinistra radicale – con Alexandra Ocasio-Cortez in prima fila – che ancora una volta si vede messa in un angolo, nonostante gli anni di Trump alla Casa Bianca abbiano radicalizzato le posizioni politiche degli americani.

Qui finiscono le somiglianze e iniziano le differenze.

La più significativa delle quali riguarda il campo repubblicano. Nel 2016 la corsa di Trump, partita molto in sordina e fra non poche ironie, dimostrò nel corso dell’avvicinamento al rush finale delle primarie per il Great Old Party la sua irresistibile ascesa. Grazie anche alla notevole mole di lavoro di Steve Bannon e del suo network Breitbart News, che riuscirono dapprima a consolidare il panorama frastagliato degli estremisti della destra più rozza e inselvatichita – antifemminista, antineri, antisemita, antigay, antiislamica, antimigranti eccetera – riunendone le varie anime in un compatto schieramento antisistema, per arrivare poi a raccogliere attorno a sé l’intero partito, in odio alla Clinton e al recente passato obamiano.

In queste ultime settimane invece sono emersi sempre più i distinguo da personalità di spicco del fronte repubblicano: dall'ex presidente Bush, all'ex candidato alla Casa Bianca Romney, dall'ex segretario di Stato Powell all’ex segretario alla Difesa ed ex generale dei Marines, James Mattis, fino alla vedova di John McCain hanno esplicitato che il loro voto non andrà a The Donald.

Altri segnali vengono dalle sentenze avverse a Trump deliberate da una Corte Suprema che proprio a Trump deve la sua attuale maggioranza conservatrice.

A dire il vero sembra più l’espressione di un malessere delle élite conservatrici che il sentimento di settori popolari – e questa potrebbe essere la debolezza della fronda anti Trump – ma sono pur sempre segni da non sottovalutare.

Inoltre la corsa di Trump verso la rielezione è ostacolata anche dal crollo dell’economia dovuto alla pandemia di Covid-19 che, a oggi, ha già contagiato oltre 5 milioni di americani, con più di 160mila vittime, e alla sua pessima gestione da parte di un presidente apparso spesso superficiale se non addirittura "negazionista".

In questo quadro le opzioni per Biden erano due: scegliere un vice di sinistra-sinistra, confidando nella radicalizzazione dell’elettorato e sperando di rastrellare i voti che nel 2016 non furono raccolti dalla Clinton, ma rischiando di ricompattare il fronte repubblicano, a tutto vantaggio di Trump, contro uno schieramento “contagiato” nientemeno che da socialisti.

Oppure optare per una personalità che presenta il vantaggio di essere donna e non bianca (definirla “nera” sembra davvero eccessivo e non solo nei riguardi del colore della sua pelle), quindi rappresentante di "minoranze" importanti (che le donne siano una minoranza non deriva certo dai numeri), ma che è anche, per i suoi trascorsi professionali di procuratore generale della California, personaggio di ala moderata e “d’ordine”. Un segnale chiaro contro gli eccessi toccati in certe manifestazioni del Black Lives Matter.

Scelta che alienerà le simpatie dell’ala sinistra, ma che contribuirà ad approfondire la spaccatura in campo repubblicano, garantendo agli antitrumpiani un ticket democratico liberale, ma non radicale né tantomeno socialista.

La scelta di Biden – che a 77 anni potrebbe diventare il più anziano dei presidenti USA – è stata forse il frutto di un’analisi che potrebbe non essere solo interna alla politica USA.

Ovunque si dice infatti (da sinistra) che le elezioni non si vincono al centro, ma optando per scelte ideologicamente nette e per schieramenti dichiaratamente radicali.

Fino a che le elezioni inglesi dell’anno scorso hanno visto il partito laburista, in mano a un leader dichiaratamente di sinistra come Jeremy Corbyn, precipitare al 32,2%. Cioè alla peggior performance del partito dal 1935, pur in presenza di un avversario che non appariva così imbattibile. È vero che quelle elezioni erano centrate sul problema Brexit, cioè su un problema specifico e non esportabile, ma il tracollo laburista ha avuto una portata che andava al di là della dinamica relativa al rapporto con l'Unione europea.

Non è difficile immaginare che questi risultati, insieme al collasso di credibilità più o meno vistoso, oltre al caso Labour, di tutte le sinistre radicali europee, e perfino dei socialdemocratici tedeschi, abbiano avuto un peso nella preferenza accordata alla Harris.

Per quanto si dica che è in crescita, la sinistra socialista americana non può contare che su bacini elettorali ristretti, l'area newyorkese e quella costiera del Pacifico, molto popolosi e tradizionalmente già democratici, ma negli stati chiave, quelli dove il voto è sempre in bilico, può spaventare più che attrarre l'elettorato locale.

Se la sinistra non appare quindi in grado di vincere – sembra essere il ragionamento – è lecito sperare che siano le destre a perdere, dividendosi in tronconi contrapposti. Tanto più quando il partito repubblicano storico è finito in mano a movimenti illiberali e potenzialmente devastanti. 

Probabilmente il duo Biden-Harris non è adatto a far sognare, ma potrebbe essere quello giusto per far tramontare il trumpismo e, insieme a lui, le velleità di rivalsa delle destre più estreme e violente dal Dopoguerra a oggi, ad ogni latitudine. Presto per dirlo, non per sperarlo.

Anche perché quello che accadrà domani negli States potrebbe accadere dopodomani in Europa. E non sarebbe certo una cattiva notizia.

Foto: Wikipedia

 

 

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