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Il caso Almarsi: la Libia (la Russia) i migranti e noi

La Libia ci minaccia con uno “tsunami di migranti”.

Refugees from Libya Queue for Food at Tunisia Transit Camp

Così scrive il Corriere a firma di Goffredo Buccini in un articolo che ripercorre la serie di “accordi” (più o meno estorti) per salvaguardare le nostre coste da sbarchi incontrollati.

C’è un essenziale punto di vista etico – salvare le vite di centinaia di migliaia di esseri umani colpevoli solo di cercare possibilità di vivere meglio – che va tenuto ben presente nella questione immigrazione, diventata centrale nel dibattito politico sia in Europa che negli Usa. Ma c’è anche un punto di vista geopolitico. Che ci fa vedere molte cose, distanti fra loro, ma non così tanto da impedire un’ipotesi, non una pura astrazione, di interpretazione.

Il caso Almarsi

Osama Najim vero nome di Almasri (“l’egiziano”) è il comandante della polizia giudiziaria libica, e direttore del carcere di Mitiga, vicino a Tripoli. Ricercato per crimini contro l’umanità dalla Pre-trial Chamber della Corte Penale Internazionale (CPI) dell’Aja, viene arrestato dalla polizia italiana. Per un inghippo procedurale che coinvolge il ministro Nordio anziché essere consegnato ai giudici dell’Aja, come sarebbe obbligatorio per un paese che ha sottoscritto lo Statuto di Roma del 1998, viene liberato e riportato con un volo di Stato in Libia. Giustificazione ufficiosa: si è trattato di ragion di Stato. Giustificazione del governo: ragion di Stato. In altre parole “tsunami migratorio” evitato, per questa volta, al prezzo di una figuraccia mondiale e un incidente diplomatico con la CPI.

La Libia

Va puntualizzato che Almasri è stato riportato a Tripoli, che, come è noto, è la capitale di una delle due Libie in cui è sostanzialmente diviso il paese: la Tripolitania, cioè la Libia con la quale l’Italia “tratta” la questione migranti, che ha sottoscritto un accordo militare con la Turchia. L'altra è la Cirenaica, la Libia di Bengasi, guidata dal golpista generale Haftar sostenuta da Egitto, Francia e Russia. Anche se al momento pare che sia in vigore una sorta di pax concordata, la storica divisione fra le due regioni è diventata nel paese post-Gheddafi un terreno di scontro fra due potenze di primo piano nel mediterraneo orientale: Russia e Turchia. La Russia, cacciata dalla Siria dopo il collasso del regime di Bashar Assad per mano di milizie islamiste foraggiate da Istanbul, nel 2019 aveva tentato di sostenere Haftar nella sua marcia su Tripoli. Ma le sue truppe furono fermate ai primi dell'anno successivo proprio dallo sbarco di un’armata turca a difesa della capitale. In poche parole Almasri fa parte della Libia “buona”, quella che blocca i migranti (in quali condizioni è noto) salvandoci da una situazione potenzialmente insostenibile, contro una Libia intuitivamente inaffidabile, se non “cattiva”, in merito all’uso potenziale di uno “tsunami migratorio” minacciato da Almasri (dove buona e cattiva sono termini alquanto discutibili). È una ipotesi fondata, in termini geopolitici, o una pura favola propagandistica? Per quale motivo dovremmo essere sospettosi del generale Haftar e dei suoi supporter internazionali?

Il precedente bielorusso

A partire dal 2021, cioè l’anno dopo la fallita marcia su Tripoli di Haftar e l’anno precedente l’invasione russa dell’Ucraina, una nuova emergenza è scoppiata ai confini tra Bielorussia e Polonia (che sono anche i confini esterni dell’Unione europea). Migliaia di migranti provenienti dal Medio Oriente, perlopiù siriani in fuga da un decennio di guerra civile, vennero “accolti” in Bielorussia e, intenzionati a entrare nell’Unione europea, si avviarono – o, se vogliamo, furono spinti – verso il confine polacco. Le guardie di confine polacche ebbero l’ordine di respingere i migranti, violando di fatto tutte le normative europee e internazionali in merito ai diritti umani. Il dibattito interno all’Unione si fece subito molto aspro tra le forze politiche di destra e i progressisti. In queste diatribe interne poca attenzione fu data all’ipotizzabile uso politico dei migranti fatto dalla Bielorussia, appoggiata dalla Russia, mentre si determinò invece uno scontro all’ONU tra i paesi occidentali che «accusavano il governo bielorusso di mettere in pericolo le vite dei migranti “per ragioni politiche” e con l’obiettivo di “destabilizzare i paesi vicini e i confini esterni dell’Unione Europea”». Oggi potremmo forse definire la questione bielorusso-polacca uno stress-test per valutare se e quanto gli europei fossero in grado di resistere a uno “tsunami migratorio” ai propri confini, pianificato e gestito dall’esterno.

L’Ucraina in guerra

Il 24 febbraio dell’anno successivo la Russia invase l’Ucraina con motivazioni non del tutto chiare e spesso contraddittorie, dopo che il presidente Macron, a nome dell’Unione europea, era volato a Mosca e aveva avuto da Putin garanzie, fino a quattro giorni prima dell’invasione, che le trattative sarebbero continuate. L’intento russo fu evidente da subito, le colonne corazzate puntavano su Kijv mentre una forza d’élite atterrava all’aeroporto di Hostomel a pochi chilometri dalla capitale. L’intento palese era quello di impadronirsi del paese, decapitarne la dirigenza politico-militare, e “festeggiarne” la liberazione. La strategia, come sappiamo, fallì nel giro di qualche giorno e iniziò la lunga guerra che aveva, a detta del vice comandante russo del settore Sud, Rustam Minnekayev, un obiettivo di ripiego: «il controllo dell’intero Sud dell’Ucraina garantisce il passaggio alla Transnistria». L’intero sud dell’Ucraina comprendeva ovviamente tutta la fascia costiera sul Mar Nero. Quella da cui vengono esportati i milioni di tonnellate di cereali ucraini che, insieme a quelli russi, costituiscono un apporto essenziale per sfamare i paesi in via di sviluppo. L’intento di “liberare” la Transnistria si rivela essere nient'altro che la scusa per impadronirsi dei porti ucraini. Anche in questo caso la Turchia è intervenuta in opposizione alla Russia, fornendo gli ottimi droni Bayraktar di sua produzione all'esercito ucraino.

L’Africa sub-sahariana

L’influenza russa nel continente si è intensificata a partire dal 2010: il Cremlino ha «ospitato due summit Russia-Africa, siglato 20 accordi di cooperazione nucleare e 43 di cooperazione militare, quadruplicato l’interscambio commerciale e venduto il 40% delle armi presenti sul Continente». Mali, Niger, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia e Burkina Faso, tutti paesi della fascia immediatamente sub-sahariana del Sahel (o “bordo del deserto”), sono coinvolti nella recente iniziativa politica russa a danno dei paesi occidentali (Francia in primo luogo) che vi mantenevano una lunga (e scomoda) interferenza fin dai tempi della decolonizzazione. Al di là dei tanti motivi, spesso comprensibilissimi, della decisione di questi paesi di preferire Mosca a Parigi o Washington, un aspetto appare prevalente in ottica geopolitica: sono tutti paesi che fungono da punto di raccolta di migranti africani intenzionati a dirigersi verso l’Europa, attraverso il Sahara, la Libia e da lì avventurandosi infine nella traversata del Mediterraneo. Sono, i paesi del Sahel, il punto d’inizio di quel tragitto, spesso spietato e letale, che ha il suo punto d’arrivo predestinato sulle coste siciliane. Che sono anche il confine esterno, proprio come quello polacco, dell’Unione europea. E qui si può intuire l'interesse russo a diventare la forza egemone, attraverso piani di investimento e supporto militare, proprio in questi paesi.

E allora cominciamo a unire i puntini

Abbiamo preso atto che lo “tsunami migratorio” è di fatto un’arma utile per mandare in pezzi l’Unione europea amplificando, fino al punto di possibile rottura (in modalità Brexit), gli interessi dei paesi più esposti alle rotte migratorie da quelli dei paesi meno esposti, le idee politiche delle destre (in particolare sovraniste) intenzionate a ricorrere a decisioni drastiche (Trump insegna) da quelle progressiste più attente ai diritti umani dei migranti e alla tolleranza verso gente che non è considerabile “nemica” da alcun punto di vista. Una rottura politica capace di determinare il sostanziale collasso del progetto di unificazione europea (potenzialmente una delle tre “superpotenze” del mondo, con Usa e Cina, se trovasse una compiuta fusione politica) sarebbe indiscutibilmente negli interessi russi (e non dispiacerebbe alla destra americana). Russia che, guardacaso, ha implementato la sua presenza nel Sahel e in Libia, i due estremi continentali della rotta migratoria africana, sta ancora tentando di vincere la partita ucraina con l’obiettivo di occupare i porti sul Mar Nero e quindi la sua personale "battaglia del grano" e ha – nel medesimo tempo ­– effettuato lo stress-test ai confini bielorussi-polacchi.

Unendo questi puntini l’immagine che ne emerge con chiarezza è il tentativo di Mosca di allestire quanto necessario (leva cerearicola compresa) per determinare e gestire, tramite i necessari punti di snodo, una possibile arma non militare contro l'Unione europea (nessuno vorrebbe davvero attaccare militarmente un paese Nato) capace di produrre lo stesso effetto deflagrante di un attacco su larga scala: lo “tsunami migratorio”.

Conclusione (salvo approfondimenti & novità): l'azione del governo sembra essere una ragion di stato finalizzata a non perdere i rapporti con l'unica Libia che, forse, impedirà o ritarderà quello che, al momento, sta solo nelle decisioni di Erdogan: impedire alla Russia di aprire il fronte sud con quel tipo di tsunami. Probabilmente qualsiasi altro governo avrebbe fatto lo stesso, questione etica a parte. Anche se così facendo si infrangono i trattati che il nostro paese si era impegnato a rispettare.

Quindi che li firmiamo a fare?

United Nations Photo

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