• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > 11 settembre dieci anni dopo: chi si ricorda dei neocon?

11 settembre dieci anni dopo: chi si ricorda dei neocon?

Con le loro visioni strategiche hanno segnato in maniera indelebile la presidenza di George W. Bush, in particolare nel primo mandato, e di fatto hanno influenzato la geopolitica mondiale per come essa è oggi. Hanno lasciato agli Stati Uniti, tra le altre cose, due guerre ancora in corso, una lista di stati canaglia e metodi “sbrigativi” per gli interrogatori dei presunti terroristi. Continuano ad essere osservatori, analisti, lobbisti, continuano a rivestire ruoli di prestigio nei think thank di riferimento per i repubblicani e non solo. Ma non sono più al centro della scena, messi in disparte prima dai fallimenti delle loro politiche, poi dall’elezione di Barack Obama. Nel giorno del decimo anniversario dell’attentato al World Trade Center, alcuni forse si saranno posti una domanda: che fine hanno fatto i neocon?

Il mondo secondo i neoconservatori
Erano tra gli uomini chiave dell’amministrazione di Bush figlio, e, molti di loro, venivano direttamente dall’entourage di Bush padre. La graduale affermazione e ascesa delle loro teorie politiche è durata all’incirca un trentennio e contrariamente a quanto si possa immaginare, il nucleo originario del pensiero neoconservatore si è sviluppato all’interno del Partito Democratico. Nel 1973, quando apparve per la prima volta il termine, i “neoconservatori” erano una frangia dei democratici fortemente antisovietici, insofferenti alle politiche di welfare state proposte dall’allora presidente Lindon Johnson e infastiditi dall’avversione alla guerra in Vietnam.

Negli anni ’80 appoggiarono convintamente Reagan, le sue scelte in campo militare e la sua propaganda ideologica in chiave anticomunista. Il collasso dell’Urss costituì un motivo in più per riaffermare le responsabilità degli Stati Uniti in quanto potenza leader: non bisognava abbassare la guardia per evitare ad altri stati di poter approfittare del nuovo scenario post guerra fredda e minare gli interessi americani nel mondo. Sotto la presidenza Clinton si è andata definendo chiaramente la loro idea di quella che sarebbe dovuta essere la politica estera statunitense: rifiuto dell’isolazionismo; capacità di azionei militari unilaterali, dunque anche al di fuori dei consessi internazionali se necessario; accettazione, a differenza dei democratici interventisti, dell’uso della forza non solo per tutelare i diritti umani, ma per salvaguardare la sicurezza globale e quindi, indirettamente, quella statunitense. In sintesi, erano questi gli ingredienti principali del loro pensiero strategico che porteranno prima alla nascita del Progetto per un nuovo secolo americano e pochi anni dopo plasmeranno le scelte di George W.

Dove sono finiti?
Il più potente politico neoconservatore dell’amministrazione del 43° presidente degli Stati Uniti è stato senza ombra di dubbio il vicepresidente Dick Cheney, non a caso ministro della Difesa con Bush senior, e dunque tra i principali artefici della prima guerra del Golfo. Uscito di scena dopo l’elezione di Obama soprattutto per le sue condizioni di salute in seguito ad n attacco cardiaco, ha continuato tuttavia ad intervenire sui media criticando l’attuale presidente. Di recente ha fatto molto discutere la pubblicazione della sua autobiografia in cui non rinnega nessuna delle scelte fatte, neanche quelle in merito alle misure antiterrorismo e alle tecniche avanzate di interrogatorio (leggi tortura) messe in atto dall’esercito statunitense e dai servizi di intelligence per far crollare i presunti terroristi. Gongola, addirittura, del fatto che Obama non abbia mantenuto la sua promessa di chiudere Guantanamo e aggiunge: “Alla fine ha dovuto adottare molte delle politiche che noi abbiamo messo in campo perché erano le più efficaci per difendere la nazione”.

Donald Rumsfeld è stato il ministro della Difesa tra il 2001 e il 2006, quando, dopo il risultato negativo per i repubblicani alle elezioni di medio termine, e dopo i mal di pancia dei vertici militari per la situazione in Iraq, è stato costretto a dimettersi. Negli anni 80 era stato inviato speciale di Reagan per il Medio Oriente. Molti lo ricordano in un filmato nel quale lo si vede stringere la mano a Saddam Hussein nel 1983, durante la guerra Iraq-Iran. Già nel 1998, insieme a Cheney e a quello che sarà il suo vice Paul Wolfowitz, aveva sottoscritto una lettera aperta per chiedere a Clinton di intervenire contro l’Iraq che non voleva collaborare con i funzionari Onu mandati per ispezionare gli arsenali di Saddam. In febbraio ha pubblicato un libro di memorie e contemporaneamente lancato un sito chiamato “The Rumsfeld Papers” dove pubblica i documenti originali del suo archivio citati nel volume e inerenti la sua carriera. Come Cheney s’è tolto la soddisfazione di sottolineare la continuità nella lotta al terrore tra Bush e Obama.

Chiudo questa brevissima carrellata con colui che è stato, probabilmente, il più importante sostenitore della seconda guerra in Iraq nel 2003, ovvero Paul Wolfowitz, il vicesegretario alla Difesa, oggi ancora opinionista molto attivo. Si fece sponsor dell’idea di attaccare Saddam Hussein già 48 ore dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Era sicuramente l’elemento di più alto rilievo culturale, essendo stato tra le altre cose professore di relazioni internazionali alla Johns Hopkins University. Nel 2005 Bush lo premia e lo nomina alla guida della Banca Mondiale, ma nel 2007 si dimette dopo essere stato accusato di aver favorito un’amante. Oggi è visiting scholar presso l’Americain Enterprise Institute, importantissimo pensatoio ultrarepubblicano, e continua a scrivere di politica internazionale. Pochi giorni fa ha pubblicato sul Wall Street Journal un articolo intitolato “9/11: did the U.S. Overreact?”. Ovvero: “è stata la risposta degli Usa agli attacchi sovradimensionata?”. “Il fatto che abbiamo commesso errori in Afghanistan e in Iraq non prova che la nostra reazione è stata esagerata – scrive – La vera domanda da porsi è se una risposta significativamente differente avrebbe prodotto un risultato migliore. Sarebbero stati sufficienti i massicci bombardamenti strategici – come nel 1998 – per sconfiggere Al Qaeda? Le fallimentari sanzioni contro l’Iraq ci avrebbero lasciato un Saddam Hussein capace, come disse all’Fbi, di “ricostruire il suo intero programma per le armi di ditruzione di massa – chimiche, biologiche e addirittura nucleari”? E che ne sarrebbe stato delle ari di distruzione di massa che Gheddafi ha deciso di abbandonare dopo aver assistito alla fine di Saddam?”. Insomma, nonostante tutto, la minacce di allora, le mai trovate armi di distruzione di massa, sono ancora lì a motivare la guerra in Iraq.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares