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Venezia: Dittico Barber-Bartók alla Fenice

E’ stato il best-seller Traviata a dare l’avvio alle rappresentazioni del 2020 nel celebre teatro di Campo S.Fantin, ma dal 17 gennaio e fino al 25 si è potuto assistere alle cinque recite del dittico A Hand of Bridge di Samuel Barber e IL castello del principe Barbablù di Béla Bartók.

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A Hand of Bridge del compositore americano Samuel Barber (1910-1981) è verosimilmente l’opera più breve regolarmente eseguita in un palcoscenico lirico. La ‘brevità’ di questa composizione è legata alla sua specifica committenza: lo stesso Gian Carlo Menotti (1911-2007), autore del libretto, nell’ambito del Festival dei Due Mondi da lui fondato solo l’anno prima (l’opera andò in scena nell’edizione del 1959) concepì uno spazio riservato a composizioni brevi invitando diversi musicisti a creare partiture che durassero tra i tre e i quindici minuti. Ecco dunque un Foglio d’album, così come vennero chiamati i brani eseguiti nel teatrino Caio Melisso di Spoleto. L’opera in questione dura infatti solo nove minuti, il tempo di una mano di bridge ‘cantata’ da due coppie di amici, entrambe vittime dei loro rapporti matrimoniali: l’avvocato Bill con sua moglie Sally, l’uomo d’affari David con la consorte ‘di mezza età’ Geraldine. Barber mescola sapientemente echi jazz e in qualche passaggio si riconosce Bernstein, il tutto per esprimere il flusso di coscienza dello strano quartetto: vacuità e capricci, tradimenti, insoddisfazioni e delusioni.

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Atto unico anche A Kékszakállú herceg vára, Il castello del principe Barbablù, composto nella sua prima stesura nel 1911 su libretto di Béla Balázs, musica di Béla Bartók (1881-1945), che va in scena dopo venti minuti di intervallo: il tempo di riorganizzare il golfo mistico e il palcoscenico. L’opera viene introdotta da un bardo, l’attore Karl-Heinz Macek, che in un prologo recitato annuncia che quanto si andrà a narrare è il pretesto per la simbolica rappresentazione dell’eterno conflitto tra sogno e realtà, desiderio e impotenza. Non si capisce come mai, considerati gli efficaci sopratitoli che ci accompagnano nel corso dell’opera, non ci si è avvalsi di questi anche per questo brevissimo prologo che viene recitato, invece, in lingua italiana.

I protagonisti sono una coppia fiabesca, o forse sarebbe meglio dire noir, Judit e Barbablù, immersi nell’atmosfera cupa e gelida di un castello che trasuda lacrime e sangue.

L’accostamento di queste due opere può dirsi giustificato solo considerandole due narrazioni di rapporti di coppia di natura profondamente differente. Il primo con i propri sogni e le proprie quotidiane paure rivela la propria matrice made in USA, il secondo irreale, cupo e misterioso, made in Transilvania.

Bene impostata la regia di Fabio Ceresa, con le eleganti e suggestive le scene di Massimo Checchetto. Accurati e coerenti alla scena e alla narrazione i costumi di Giuseppe Palella, di grande impatto le luci di Fabio Barettin.

Un cast vocale di tutto rispetto ha reso notevole questa produzione. il soprano Aušrine Stundyte (Geraldine, Judit) e il basso-baritono Gidon Saks (David, Barbablù), impegnati in entrambi i titoli, affiancati dal tenore Christopher Lemmings (Bill) e dal mezzosoprano Manuela Custer (Sally) nel Bridge di Barber. Naturalmente è stata l’opera di Bartók a dare maggior rilievo alle doti vocali e interpretative dei due artisti impegnati in questi due ruoli carismatici e impegnativi.

Alla testa Dell’Orchestra del Teatro La Fenice, Diego Matheuz, che ne è stato direttore principale dal 2011 al 2015, e che troviamo maturato e adeguato ad affrontare due opere di repertorio così diverso.

I danzatori della Fattoria Vittadini (Noemi Bresciani, Maura Di Vietri, Sebastiano Geronimo, Pia Mazza, Samuel Moretti, Francesca Penzo, Filippo Porro, Filippo Stabile), hanno creato un piccolo capolavoro dando vita all’azione del coreografo Mattia Agatiello.

Ottimo successo, applausi sinceri per tutti e, aggiungo io, personali complimenti a Massimo Checchetto per le scene versatili e meravigliose.

Marina Bontempelli

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