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Vajont: gli errori umani che provocarono il disastro

Cinquantatre anni fa si verificava la tragedia del Vajont, il maggior disastro civile mai accaduto in Europa. Dopo tanti anni è ancora complicato accedere ad una attendibile ricostruzione della complessa ed articolata catena di azioni umane, protrattesi per circa sei anni, che provocarono, o quantomeno concorsero a provocare, l'apocalisse sul Piave con i suoi duemila morti. I quotidiani, intorno alla data del 9 ottobre, sono soliti pubblicare articoli giustamente incentrati sul dramma umano ed accompagnati, talvolta, da semplicistiche e superficiali ricostruzioni. Negli ultimi due decenni, poi, un fortunato lavoro teatrale ed un successivo film, hanno proposto al grande pubblico due rivisitazioni della vicenda con aggiustamenti ed elementi romanzati i quali, pur mantenendo l'ambito e la descrizione generale degli eventi, distorcono e talvolta suggeriscono fatti errati ed alterati. Negli stessi anni, proprio in risposta alle rappresentazioni artistiche citate, è stato pubblicato un pregiato libro del geologo Edoardo Semenza, l'autore materiale della scoperta della frana e figlio dell'ingegnere progettista della diga; il testo è una miniera di informazioni tecniche, alcune inedite, ma ha il peccato di voler essere una sorta di difesa ad oltranza ed al di là della realtà, del gruppo di lavoro responsabile del progetto e dell'azienda costruttrice dell'impianto. Potremmo dire quindi che ancora oggi si confrontano tesi spesso contrastanti che complicano la comprensione del fenomeno e lo rendono criptico al grande pubblico. Ma cosa accadde veramente e cosa è oggi possibile capire di una vicenda tanto complicata?
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una superstite sulle tombe dei propri cari il giorno di Natale del 1963
Per molto tempo, negli anni dei processi e della strumentalizzazione politica che una vicenda tanto clamorosa inevitabilmente si trascinava dietro, si sono confrontati i due opposti schieramenti di coloro che volevano il disastro provocato esclusivamente da errori umani e di quelli sostenitori, invece, dell’evento naturale imprevedibile, accaduto nel contesto di una grande opera artificiale.
Dobbiamo subito dire che è del tutto acclarato che senza la costruzione del bacino e del suo riempimento attraverso tre successivi invasi, l’evento naturale della grande frana del Toc non sarebbe accaduto. Questa prima verità ci costringe allora a dover cercare gli errori di valutazione, di progettazione e di conduzione dell’impianto che scatenarono la tragedia. Questo obbligo è etico; non certo per spirito di rivalsa, o soltanto per quell’esigenza di giustizia, indispensabile come ristoro morale e materiale per le vittime e gli scampati, ma per la necessità categorica di non ripetere più errori simili.
Tralasciando le citate rappresentazioni teatrali e cinematografiche del disastro, che in quanto opere artistiche enfatizzano gli aspetti emotivi e spesso alterano la ricostruzione oggettiva dei fatti, così come i testi troppo di parte, possiamo farci un’idea abbastanza esatta degli eventi solo con una meticolosa lettura della immensa documentazione a riguardo: documenti originali, atti processuali, studi, perizie, saggi, relazioni, lettere, etc.. Si tratta di una mole notevole di carte che restituiscono una vicenda estremamente complicata per gli innumerevoli aspetti tecnici, politici e legali che la caratterizzarono.
Lo scopo di queste mie righe è quello di offrire una sintesi il più possibile verosimile ed oggettiva delle cause, priva di giudizi e di valutazioni storico-politiche; semplicemente una traccia, evinta dalle carte, in grado di permettere l’individuazione e la comprensione dei fenomeni e degli errori principali commessi nella vicenda del Vajont. Questo per rendere accessibile a tutti una ricostruzione veritiera e logica dei fatti, senza la necessità di studiare anni ed anni su migliaia di carte o correre il rischio di sposare inconsapevolmente una interpretazione tendenziosa invece di un’altra.

 

Il peccato originale.
C’e un momento nel quale prende forma il disastro del Vajont e questo è l’anno 1957. E’ soprattutto allora che vengono commesse quelle leggerezze che definirei il peccato originale: l’origine della catena di eventi negativi che si concluderà nel modo che sappiamo. Quell’anno non soltanto iniziano materialmente i lavori di realizzazione della diga, ma viene ufficializzata come variante la presentazione di un progetto completamente diverso ed innovativo rispetto a quello approvato. Si pensa infatti ad una diga molto più alta (66 metri in più) che conterrà un volume di acqua triplicato. Intendiamoci, pure con la diga originaria di soli 200 metri di altezza avremmo avuto la frana, ma la presentazione di questo nuovo ed arditissimo disegno offrirebbe l’occasione per capire quello che, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, non era stato compreso: la reale conformazione geologica del futuro bacino. Gli studi geologici preliminari e poi definitivi, non avevano infatti scoperto l’esistenza dei problemi sul versante del Toc. Ma adesso, con la presentazione dell’ampliamento, il Ministero dei Lavori Pubblici chiede nuove perizie, più accurate, più estese di quelle del passato. Ed ora esistono tecniche di indagine molto più affidabili rispetto a quelle dei decenni precedenti. Se si eseguisse alla lettera quanto richiesto, vale a dire si studiasse meglio e più in dettaglio la conformazione geologica del sito, per poi, solo dopo, costruire, saremmo ancora in tempo a scoprire i problemi e non iniziare i lavori. Purtroppo le cose non vanno in questo modo. In sostanza il progettista del bacino si fida delle vecchie perizie di Giorgio Dal Piaz e ne commissiona di nuove, ad uso d’ufficio, allo stesso geologo ormai molto anziano; non certo per approfondire la conoscenza delle caratteristiche del luogo, ma solo per ottenere i timbri ministeriali. Altri tecnici, è vero, stanno studiando la valle e cominciano a trovare cose strane, ma i lavori di costruzione vanno inesorabilmente avanti, supportati da quelle perizie formali; le osservazioni relative alle nuove e dubbiose scoperte non vengono invece inoltrate agli organi di controllo. Anche se si insinuano i primi sospetti di strati poco solidi su determinate sponde, non si ritiene di dovere, per questo, fermare o rallentare i lavori e men che mai farne cenno al Ministero ed al Servizio Dighe. Qui sotto riporto un mio promemoria di cosa accadde in quel fatale 1957 e potrete osservare come la costruzione fosse materialmente iniziata ancor prima della realizzazione delle nuove perizie ed indagini. Questo determinò il terribile obbligo di non poter più fermare la macchina e tornare indietro. Il peccato originale.

 

Ai primi di gennaio del 1957 la SADE inizia i lavori di scavo in assenza di autorizzazione; il 31 dello stesso mese presenta la richiesta di variante col triplicamento dell'invaso e l'innalzamento della diga a 266 metri allegando le vecchie perizie Dal Piaz 1948 ed un'appendice datata lo stesso giorno. Agli atti troviamo una lettera del 6 febbraio 57 con la quale il geologo Dal Piaz chiede al progettista Semenza il testo per una nuova relazione. Semenza risponde il giorno dopo pregando di restituire la relazione firmata con data 31 gennaio. Il 2 aprile viene presentato il progetto definitivo con la variante e il 17 arriva l'autorizzazione agli scavi già in opera da inizio anno. Il 31 maggio c'è la richiesta ufficiale del Servizio Dighe di una nuova perizia geologica aggiornata e specifica per il nuovo progetto. l'11 giugno Dal Piaz invia a Semenza una bozza manoscritta di nuova relazione geologica augurandosi che corrisponda alle richieste del committente. Il 14 Semenza la restituisce al geologo con alcune modifiche e già dattilografata. Il 15 giugno c'è il voto favorevole per la variante dell'Assemblea plenaria del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, con una prescrizione: «E' però necessario completarle [le indagini geologiche] nei riguardi della sicurezza degli abitanti e delle opere pubbliche, che verranno a trovarsi in prossimità del massimo invaso» All'assemblea assiste Semenza che ha con sé la relazione di Dal Piaz concordata con lui pochi giorni prima. Il 6 agosto il geomeccanico Leopold Mueller (tecnico che per la SADE aveva eseguito accurati studi della roccia di fondazione e impostazione della diga) consegna alla SADE un secondo rapporto che parla di pascoli su strati sfasciati, ma detto rapporto non arriverà mai agli organi di controllo. Il 25 settembre la SADE inoltra al ministero la perizia definitiva firmata Dal Piaz sopra citata e realizzata nella prima metà di giugno e presentata in minuta il 15 giugno all'assemblea. Il 12 febbraio 1958 è agli atti una comunicazione ufficiale SADE al Servizio Dighe che segnala di aver preso atto che anche questo organo ha dato l'ok, ma non accenna niente della richiesta, sia del ministero che del Servizio Dighe stesso di nuove perizie. Nessun organo di controllo, compreso il Genio Civile, rileva inadempienze ritenendo sufficiente la perizia dettata a Dal Piaz e presentata il 25 settembre. In buona sostanza la variante, il triplicamento ed i relativi permessi sono vincolati ad una nuova perizia richiesta come obbligatoria, ma realizzata superficialmente, scritta soprattutto dagli uffici SADE e firmata da Dal Piaz. Dal fitto carteggio Dal Piaz-Semenza appare evidente che il vecchio geologo nel 1957 non compie nuovi studi particolari e più approfonditi, ma che stende una nuova perizia in buona parte basata sulle sue precedenti osservazioni o addirittura in alcuni passaggi sotto dettatura del committente. Le altre perizie, che pur ci sono e la SADE commissiona nello stesso periodo, in modo particolare il secondo rapporto Mueller che per primo accenna a "...ammassi di sfasciume in sponda sinistra... in forte pericolo di frana pur se di formazione rocciosa molto fratturata e degradata e può pertanto facilmente scoscendere ed essere posta in movimento..." non raggiungeranno mai gli organi di controllo; nel 57 Dal Piaz ha 85 anni.
E’ utile concludere questo passaggio cruciale ricordando che quando il Geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista, verrà chiamato dal padre a studiare la valle dopo il franamento nel vicino bacino di Pontesei, scoprirà l’esistenza della frana del Toc in pochi giorni di osservazione. Ma siamo ormai a fine agosto del 1959, la diga è per oltre due terzi già realizzata. Lo stesso progettista ammetterà in una lettera privata che se avesse saputo prima del contesto problematico della valle, non avrebbe mai iniziato i lavori. Aveva avuto in realtà la possibilità, persino l’obbligo, di saperlo prima.

 

L’altro momento cruciale della vicenda è, a mio modo di vedere, il processo di nazionalizzazione e l’errata gestione del terzo invaso, risultato l’ultimo a causa del disastro. Prima di affrontare questi passaggi, brevissimamente possiamo riassumere come gli eventi successivi all’estate del 59 confermeranno sempre più l’esattezza delle valutazioni di Edoardo Semenza. Il monte Toc, già al primo invaso, comincerà a dare segni evidenti di grande instabilità e questo indurrà estrema prudenza da parte del progettista nella gestione delle prove di invaso, in accordo con gli organi di controllo ed il geologo di stato Penta. Questa gestione prudenziale però è legata al carisma ed al decisionismo di Carlo Semenza. Dopo la sua morte, avvenuta alla fine del 1961, tutto precipita. Alberico Biadene, che gli succede, ritiene ormai di sapere quanto basta per gestire il bacino in sicurezza in attesa della caduta, ritenuta inevitabile, della frana. Progressivamente il nuovo direttore rinuncia alle consulenze geologiche di Semenza e Mueller e si affida esclusivamente alle valutazioni errate ipotizzate con simulazioni su modellino eseguite dall’università di Padova. L’idea è che la frana ci sarà, ma restando col lago sotto quota settecento metri slm le conseguenze saranno irrilevanti per persone e cose; dopo il franamento sarà possibile tornare ad usare a pieno il bacino grazie alla galleria di sorpasso frana, fatta costruire preventivamente.

 

La nazionalizzazione ed il terzo invaso.
Il 12 dicembre 1962 entra in vigore la legge che nazionalizza le società elettriche. Questo dispositivo prevede che nel corso del 1963, lo Stato rileverà, acquistandole, tutte le quote azionarie delle società elettriche private, sostituendosi obbligatoriamente ai legittimi proprietari. Qui sono state spesso dette molte imprecisioni. E’ necessario chiarire che il cambio di proprietà, attraverso la vendita forzosa delle azioni allo Stato, non determinerà inizialmente alcun cambio di organico, di obiettivi e di gestione delle società stesse. Quando si sostiene che la nazionalizzazione arrecò al Vajont cambi di personale, di maestranze, di procedure, di gestione dell’impianto, etc., si afferma una cosa del tutto inesatta. La nazionalizzazione vedrà nelle prime fasi soltanto la sostituzione della proprietà giuridica, niente di più o di meno. E a questo punto, per capirne gli effetti sul Vajont, diventa fondamentale il primo comma dell’articolo 12 della legge sulla nazionalizzazione. Esso recita così:
Dalla data di entrata in vigore della presente legge, i legali rappresentanti delle società o ditte esercenti le imprese soggette a trasferimento sono responsabili verso l'Ente nazionale della conservazione e manutenzione degli impianti nonché della buona gestione delle imprese stesse, ivi compresa l'attuazione dei programmi in corso di ampliamento, di trasformazione e nuova costruzione di opere e di impianti.
In buona sostanza le società dovranno continuare a fare esattamente quello che facevano prima del 12 dicembre 1962, e portare avanti tutte le opere in costruzione ed i relativi programmi. Il programma ufficiale del Vajont, è quello di arrivare al completamento degli invasi di prova, il collaudo dell’opera e la messa a pieno regime produttivo dell’impianto. I responsabili del Vajont, dopo la morte di Carlo Semenza, non hanno comunicato più niente di innovativo agli organi di controllo in merito al rischio di frane, di conseguenti cambi di programma, di rinunce o rinvii del collaudo. La gestione Biadene, come risulta dalle carte, ha progressivamente “normalizzato” il contesto privando gli organi di controllo di tutte quelle notizie che potessero indicare aggravamento della situazione, rischi, rinvii o cambi di programmi. Nella testa di chi gestisce il Vajont c’è la sicumera che le informazioni geologiche acquisite, le valutazioni su modellino e le strategie messe a punto, porteranno a compimento le prove fino al collaudo, anche se nel frattempo il Toc dovesse cedere. E’ già tutto previsto: cosa fare, come fare e come sarà il funzionamento dell’impianto in futuro, a frana caduta.
La nazionalizzazione, tra l’altro, espropria gli azionisti con un trattamento economico di prim’ordine. Le azioni vengono infatti acquistate al loro valore medio nel triennio 1959-1961 antecedente l’approvazione della legge stessa. Per contestualizzarlo alla SADE, l’intero pacchetto azionario passa dai privati allo Stato con un esborso di quest’ultimo di quasi 167 miliardi e mezzo. In quel momento il valore in borsa del capitale sociale era di nemmeno 126 miliardi, sicuramente deprezzato dall’incertezze della nazionalizzazione, ma l’anno precedente, prima che entrasse in vigore la normativa sulla nazionalizzazione, il valore era di circa 153 miliardi. Come si può vedere gli azionisti SADE vendettero le azioni ad un prezzo eccellente ricavando ottime plusvalenze. Ma questa vendita vantaggiosa aveva alcune clausole, tra le quali quelle del citato articolo 12. Tutto il personale SADE, passato alle dipendenze dell’ENEL, doveva portare a compimento i programmi sul Vajont che erano in vigore nel 1962 e questi prevedevano di arrivare al collaudo e pieno esercizio dell’opera. Non lo avessero fatto e avessero mutato il programma ufficiale relativo al Vajont, lo Stato avrebbe potuto rivalersi sul prezzo di acquisto dell’intera società. Probabilmente quindi si pensò di fare velocemente un collaudo per sgravare da ogni rischio di rivalsa da parte dello Stato la società venditrice, ma soprattutto per non rivelare quanto pervicacemente nascosto agli organi di controllo nel corso di tutto il 1962. Questo darebbe un senso del perché Biadene chiese e tentò un invaso fino a quota 715, ben 15 metri sopra la massima quota di sicurezza secondo le prove su modellino. E’ vero che sarebbero mancati ancora 7 metri al collaudo, ma ipotizzo che una volta arrivati senza problemi a 715 avrebbero chiesto di salire ancora e collaudare. E questo spiega anche come mai il geologo di stato Penta, che aveva lavorato spalla a spalla con Carlo Semenza seguendo tutte le fasi della vicenda, non avesse più alcuna cognizione dell’evolversi degli eventi nel convulso settembre del 1963: la gestione Biadene aveva tagliato tutti i flussi di informazioni reali con i controllori. Comunque, anche fosse un giorno dimostrato che quel terzo invaso non aveva come obiettivo il collaudo (cosa per me poco probabile) rimane il fatto che l’intera responsabilità della pessima gestione di quella fase cruciale fu eseguita solo e soltanto dal personale SADE all’atto di eseguire gli ordini esclusivi dei dirigenti SADE, passati a libro paga ENEL, ma investiti da quest’ultimo di un mandato gestorio in piena autonomia, privo di vincoli di subordinazione da ENEL stesso; mandato gestorio finalizzato a conseguire e portare a termine gli obiettivi ed i programmi stabiliti dalla precedente proprietà; mandato previsto dalla legge e ancora in vigore quel nove ottobre 1963. Questo passaggio cruciale è attestato nelle motivazioni della Cassazione, depositate a metà anni Ottanta, in merito alla sentenza civile che regola la titolarità dei risarcimenti ai sinistrati.
Ecco quindi cosa, secondo una lettura di tutte le carte, determinò in modo particolare la strage:
1) Una progettazione iniziale basata su perizie geologiche errate;
2) La mancata realizzazione delle ulteriori ed approfondite indagini geologiche richieste per avallare il nuovo progetto del 1957, da eseguirsi prima di iniziare la costruzione; questa omissione comportò, per ovvie ragioni economiche, la mancata rinuncia all’opera una volta scoperta la grande frana sul Toc, frana individuata, con colposo ritardo, a diga ormai quasi ultimata.
3) Una probabile corsa al collaudo nel 1963 per ottemperare agli obblighi di completamento dei programmi come previsto dall’articolo 12 della legge sulla nazionalizzazione. Il rispetto dei programmi di sviluppo in corso decisi prima della nazionalizzazione era infatti una delle condizioni vincolanti il pieno indennizzo al venditore.
Non sono solo questi gli errori umani e gli snodi cruciali della tragedia, ma sicuramente rappresentano le principali concause della carneficina del Vajont. E’ solo una ricostruzione cronachistica che non vuole addentrarsi in giudizi storici. Questi, come tutti i giudizi storici, risulteranno possibili in un futuro non prossimo quando saranno espressi da generazioni successive ai discendenti diretti dei protagonisti.
Antonio Del Lungo
 

Commenti all'articolo

  • Di Francesca Chiarelli (---.---.---.234) 10 ottobre 2016 22:44

    Ottima sintesi di una vicenda davvero complessa. Mi sento solo di aggiungere un commento che metterei come punto 4 della lista di concause, dal mio punto di vista la peggiore di tutte: la superbia, la viltà e l’opportunismo che hanno portato Biadene a non rendere di pubblico dominio, il giorno 9 stesso mattina, o anzi il giorno prima, che per quella sera del 9 la frana era certa e che pertanto ciascuno decidesse per sé se stare o andare altrove per quella sera. Se ne parla sempre come se il fatto fosse accaduto in una data imprevista e imprevedibile, quando è storicamente accertato che non è stato così. Riguardo poi al punto 3 mi sento di segnalare l’ottimo recente lavoro di ricerca di Petley e Kilburn che vede nella catena di invasi e svasi di quel 1963 non solo una corsa al collaudo ma anche una decisa intenzione di pilotare la frana come fosse un modellino, con lo scopo di poter finalmente usare i residui, grazie alla galleria sotterranea costruita in precedenza proprio per questo.

    • Di Antonio Del Lungo (---.---.---.108) 11 ottobre 2016 00:27
      Antonio Del Lungo

      Grazie del commento. Naturalmente la vicenda è così ampia che si potrebbero aprire decine di discussioni su altrettanti argomenti. Per esempio, nonostante fossero state pubblicate precise descrizioni in alcune delle più prestigiose riviste internazionali di geologia, il gruppo di lavoro al Vajont ignorava l’evento precursore di Lituya Bay del 1958 dove la caduta di una frana, un sesto di quella del Toc, aveva sollevato sulla controsponda di un fiordo in Alaska un’onda di oltre 500 metri, la più alta mai osservata. Biadene ed i suoi non prevedevano una caduta così veloce: in effetti era difficile pensarla, ma non operarono con il principio di massima prudenza, dal momento che, comunque, qualsiasi manuale sulle frane descriveva anche frane cadute con velocità intorno ai 100km/h, quindi in linea teorica potevano attenersi a questo dato sfavorevolissimo per usare la massima prudenza, anche se ritenuto un rischio solo teorico. Del resto Biadene rimase alla diga fino alle 18.00 del giorno fatidico rischiando, inconsapevolmente, di essere disintegrato dall’apocalisse che giunse solo 4 ore dopo. Quanto alla trasparenza non ve ne fu alcuna, ad esempio la galleria di sorpasso frana fu scavata all’oscuro delle popolazioni e del modello di Ghetti a Nove nessuno sapeva niente. Purtroppo questi meccanismi oggi sono ancora intatti, basta osservare le manovre che furono compiute per forzare la mano e portare avanti il deposito di metano a rivara di San Felice. Un’opera che se fosse stata realizzata prima del terremoto dell’Emilia avrebbe provocato una catastrofe biblica, eppure a dispetto della gente che ne era terrorizzata veniva promossa con la complicità di politici e accademici al soldo del cartello che progettava l’opera.

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