Uomini, conflitti e negoziazioni: come chiudere i conti con la Storia
Il giudice francese Antoine Garapon è l’autore di un libro molto originale e interessante: "Chiudere i conti con la storia. Colonizzazione, schiavitù, Shoah" (www.raffaellocortina.it, 2009).
Tutti possono constatare che l’evoluzione sociale crea nuovi ideali di giustizia e “dopo la criminalizzazione della storia attraverso i processi penali, è sopraggiunta la speranza di una “civilizzazione” del mondo per il tramite dei processi civili. Il sogno inseguito da queste azioni è, in effetti, di “civilizzare” il mondo, nel duplice senso di sottrarlo all’imbarbarimento, esponendolo a un’incidenza più significativa del diritto civile (p. 83). Come è già avvenuto nel caso delle azioni civili nei confronti delle multinazionali che sfruttavano la manodopera infantile.
Però i grandi crimini non furono “soltanto brevi parentesi nella storia di certi paesi, costituendo invece vere e proprie politiche statali, caratterizzate perciò dal contrassegno della legalità nel momento in cui furono poste in atto: la schiavitù, la spoliazione dei beni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, la sterilizzazione dei nativi, l’occupazione delle terre degli aborigeni in Australia, la “rieducazione” forzata dei giovani autoctoni di origine indiana in Canada, la prostituzione forzata delle donne coreane durante la seconda guerra mondiale” (prefazione).
Per arrivare a questi livelli di disumanità e ingiustizia occorre arrivare all’uccisione della personalità giuridica che nell’uomo è una condizione indispensabile per dominarlo interamente (H. Arendt, Le origini del totalitarismo). L’atteggiamento di alcuni banchieri svizzeri che richiedevano l’atto di decesso degli ebrei morti nei campi di concentramento per poter restituire ai familiari il legittimo denaro depositato nei loro conti, dimostra il perdurare dell’estremo disprezzo e cinismo dei potenti nei confronti della giustizia e della dignità.
Dopotutto come affermava Simmel, “il fatto che i valori personali non possano venir compensati dal denaro… può, da un lato, essere motivo di infinite ingiustizie e di situazioni tragiche; ma, d’altra parte, proprio qui sorge la coscienza del valore dell’elemento personale, l’orgoglio del proprio contenuto di vita individuale, di sapere di non poter essere compensati da un ammontare qualsiasi di valori puramente quantitativi” (Filosofia del denaro, 1984). Di certo il quieto vivere ottenuto tramite il denaro fa sempre comodo ai potenti e ai delinquenti che il denaro lo possono ottenere rapidamente e facilmente. Tra le altre cose, agli americani e alle persone più nazionaliste sarebbe bene ricordare questo dato: “La guerra di secessione ha provocato la morte di 600.000 americani, più di quanti non ne abbiano causato le due guerre mondiali” (nota a p. 138).
Inoltre “ci sono culture come quella europea che cercano di fare della storia il motore del proprio progresso e cambiamento… Mentre altre culture (come in parte quella islamica) non l’assumono, anzi cercano di fare come se la storia non esistesse benché esista” (Claude Lévi-Strauss, 1978, ripubblicato in MicroMega, 6/2009). Un esempio moderno delle difficoltà di negoziare su diversi livelli mentali e storici, viene dimostrato dal “problema Palestina”: esiste per israeliani e palestinesi la difficoltà di “affrontare il passato nel momento in cui quest’ultimo diviene fonte di diritti, colpe, responsabilità e riconoscimento. Gli eventi veicolano sofferenze e sono soggetti a processi retrospettivi, nonché a istanze attuali di riparazione… alimentando la tendenza a pronunciare una condanna o, al contrario, a ricercare circostanze attenuanti” (Henry Laurens, storico, nota a pag. 46). Nell’odierno conflitto tra israeliani e palestinesi si è però finalmente arrivati a una chiara identificazione dei diritti dei civili a essere rimborsati dei danni dovuti alla guerra, in ottemperanza al diritto internazionale umanitario (p. 105).
Comunque “l’indennizzo dei danni inferti dalla storia grazie ai meccanismi del diritto civile è un’operazione che poggia sul postulato secondo cui i rapporti di diritto privato possono risolvere le aporie (difficoltà logiche) dei rapporti politici, finanche di quelli del passato. In tal modo, queste azioni danno credito all’ipotesi della depoliticizzazione dei rapporti politici, assecondando la tendenza naturale del diritto civile a rimuovere la dimensione politica” (Garapon, p. 50).
Ma le negoziazioni sono complesse: “Quando non seguite da un’offerta di denaro, le scuse appaiono eteree, ma è vero anche il contrario: senza scuse, gli indennizzi si rivelano impotenti di fronte alla sfida di superare un periodo carico di violenza politica” (p. 190). Per questo motivo si richiedono risarcimenti monetari, che vengono poi devoluti a favore di associazioni umanitarie. In alcuni casi le vittime si sono semplicemente accontentate delle scuse pubbliche come è accaduto in Sudafrica alle vittime dell’apartheid con l’istituzione della Commissione Verità e Riconciliazione.
Il progetto della conferenza di Durban si era ispirato a un processo di “guarigione dal passato” molto simile: “gli organizzatori avrebbero voluto dare la parola alle vittime della colonizzazione e della schiavitù, in presenza dei padroni di ieri; il tutto come in una grande cerimonia catartica. Niente di tutto questo è accaduto; piuttosto, si è assistito a un’eccitazione dei reciproci odi e a un fenomeno di concorrenza tra le vittime, il cui centro simbolico è stato l’Olocausto” (p. 198).
Invece “l’Europa ha sublimato i debiti stessi, riattivando la storia; essa ha pensato di saldare i debiti non già pagando, ma chiedendo l’impegno comune a non esigere più il pagamento degli stessi. L’Europa ha scommesso sul fatto che questo mancato pagamento, lungi dall’inasprire il risentimento, sarà al contrario l’escamotage più utile per garantire la pace” (p. 207). L’Europa è così diventata una comunità di cittadini garantita dal debito reciproco, grazie all’abreazione conseguente al riconoscimento dei debiti e alla risoluzione simbolica delle offese.
Quindi “il debito può essere infinito, ma può generare non la colpevolezza, né un desiderio di pagamento, bensì un sentimento di riconoscenza e la voglia di donare a propria volta, pur sapendo che non saremo mai in pari. In realtà, nessuno è mai in pari di fronte a coloro che sono stati più importanti nella nostra vita: genitori, amici, amori, maestri” (J. T. Godbout, Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare; Vita e Pensiero, 2008). Così “L’ambiguità del debito è anche la sua forza: pur avendo a cuore l’esattezza dei conti, esso non esclude la generosità; il debito delimita il passato, ma senza offendere il futuro, permettendo a chiunque di salvare la faccia e obbligandoci a riconoscerci senza amarci a tutti i costi: in definitiva, il debito ci suggerisce un modo per rimanere politici, senza affidare tutto alla politica” (p. 216).
In questo caso il debito assume il ruolo della tavola nella metafora cara a Hannah Arendt: “è simbolo della relazione politica, dal momento che unisce e separa al tempo stesso… La dimensione patrimoniale introduce un elemento terzo tra diritto e politica, tra narrazione e calcolo. Tentare di accordare un valore a quei danni significa “rimpatriarli” in una scala di valori comuni. Il denaro consente di laicizzare questi drammi, costantemente ambiti della metafisica, e di raffreddare i conflitti politici, affrontandoli in maniera obliqua e progredendo verso una soluzione dall’esterno, senza pretendere di andare alla radice” (p. 215).
Antoine Garapon ha fondato e dirige l’Institut des Hautes Etudes sur la Justice. Vive a Parigi e collabora con la rivista “Esprit”. Alcuni suoi articoli si possono trovare anche in un’altra rivista innovativa e ricca di contenuti multiculturali: www.eurozine.com.
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