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Torturati e condannati a morte, la storia di Abdullah al-Qahtani

Ti hanno arrestato e accusato. Hai rapinato e ucciso. Ti hanno messo un sacchetto di plastica sulla testa. Soffocavi, stavi per morire, avevi paura. E poi ti hanno spento le sigarette addosso, ovunque, e ti hanno tirato i genitali, con forza. Fino a farti piangere. Una o due costole rotte, non ricordi. Ti hanno picchiato a lungo. E poi hai firmato. Una confessione: sì, sono stato io, sì, ho ucciso io, sì, sì, sono un terrorista, sì… sono qualsiasi cosa voi volete.

È questa la tortura. Abdullah al-Qahtani, sottoposto a tortura, ha confessato, tutto. Colpevole o innocente, non importa, è stato torturato e ha confessato. Condannato a morte, ora la sua vita è appesa al filo della ratifica, solo il presidente iracheno ha il potere di scegliere se Abdullah debba vivere o morire. E morirà, forse, come sono morti i suoi presunti complici prima di lui, torturati come lui.

Abdullah è il caso che accompagna la pubblicazione del rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel 2012 . Una firma, molte firme, tantissime firme possono salvare la sua vita .

Nell’Iraq di Abdullah, le esecuzioni sono quasi raddoppiate rispetto allo scorso anno. Per arginare il crimine, sostengono le autorità. Un modo per minacciare e reprimere, sosteniamo noi. Pochi chilometri, ed ecco l’Iran, ancora minacce, ancora repressione, ancora condanne a morte per “inimicizia verso Dio”, un reato (un reato?) vago e usato contro oppositori politici e minoranze. In buona compagnia, con Iraq e Iran, l’Arabia Saudita, la Cina, gli Usa, lo Yemen. Sempre gli stessi, sempre i principali responsabili della maggior parte delle esecuzioni al mondo.

Ancora oggi lo stato uccide per reati non violenti, adulterio, apostasia, traffico di droga, reati finanziari. Ancora oggi, muori per mano di uno stato che si ritiene il paladino dei diritti umani ma che ti discrimina per il colore della tua pelle. Oggi, tuttavia, qualcosa è cambiato, rispetto allo scorso anno, rispetto a 10 anni fa. I passi in avanti cominciano a essere evidenti .

Dannel Malloy, prima di diventare governatore del Connecticut, è stato un pubblico ministero, un sostenitore della pena di morte. Ha lavorato nei tribunali per anni, un’esperienza che lo ha segnato. “Ho visto gente assistita miseramente dai propri legali, ho visto persone ingiustamente accusate o erroneamente identificate. Ho visto discriminazione”. Da governatore, ha scelto di abolire la pena di morte nel suo stato. “L’unico modo per essere certi che essa non sia mai applicata in modo iniquo”.

Come lui, molti altri cominciano ad avere dubbi. Il tempo passa ma il crimine resta tale, anzi, chissà come mai, aumenta nei paesi dove lo stato uccide. Che la pena di morte, oltre all’atroce carico di brutale violenza che porta con sé, possa anche essere inutile, sta entrando lentamente nelle menti dei più accaniti sostenitori.

Il cammino è ancora lungo, lunghissimo. Leggeremo ancora di esecuzioni e condanne a morte, di ragazze decapitate da uno stato disumano, di esecuzioni improvvise, dopo 30 anni, ed esecuzioni segrete. Di madri che non vedranno mai più i loro figli messi a morte e non sapranno nemmeno dove sono stati sepolti. Con un nodo allo stomaco, leggeremo ancora di tanti Abdullah, torturati e condannati, ma alla fine ci arriveremo. Senza il minimo dubbio.

Gabriela ‘Ela’ Rotoli

Questo articolo è stato pubblicato qui

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