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Tibet: 50 anni di oppressione cinese

Oggi ricorrono i 50 anni dall’esilio del Dalai Lama. La repressione cinese, per la verità, ha inizio quasi un decennio prima.

 

Hu Jintao, attuale capo del governo di Pechino e segretario generale del Partito comunista cinese, vorrebbe celebrare oggi i 50 anni di "riforme democratiche e abolizione della servitù feudale in Tibet".

La realtà è però ben diversa: il timore per le manifestazioni del popolo tibetano in segno di solidarietà con il loro capo spirituale, costretto da mezzo secolo a trovare rifugio in India, preoccupa non poco i dirigenti comunisti cinesi i quali hanno dispiegato un massiccio contingente di uomini e mezzi ai confini con il Tibet al fine di reprimere sul nascere ogni segnale di intolleranza verso la politica autoritaria cinese.

L’invasione del Tibet si può far risalire al 1949, quando, poco dopo la rivoluzione comunista, Mao Zedong annuncia la liberazione tibetana dal giogo dell’impero inglese.

Per la verità il ritiro delle truppe di ’Sua Maestà’ ha inizio dopo la fine della seconda guerra mondiale, anche in conseguenza di quanto stava accadendo nella vicina India, dove i moti di protesta pacifica guidata dal Mahatma Gandhi portarono all’indipendenza.

Dalla seconda metà degli anni cinquanta la repressione si fa più dura e stringente in conseguenza della Rivoluzione Culturale voluta da Mao e dell’ateismo di stato tipico delle società comuniste.

Le Guardie rosse distruggono uno dei maggiori patrimoni artistici dell’umanità, a cominciare dai templi buddisti, e soffocano ogni forma di autodeterminazione del popolo.

I diritti dei tibetani vengono costantemente calpestati dopo l’esilio del Dalai Lama e non sono tollerate alcune forme di solidarietà con questo popolo nemmeno all’interno dei confini cinesi.

Non è possibile, oggi, stimare il numero delle vittime di questa guerra silenziosa, vista la censura opprimente e la chiusura totale nei confronti di ogni organo di stampa indipendente.

Una riprova si è avuta l’anno scorso, durante le Olimpiadi, con il completo oscuramento dei siti internet a disposizione della stampa internazionale.



Prima delle Olimpiadi erano in molti a pensare che il dopo sarebbe stato migliore, erano in molti ad auspicare maggiore libertà di espressione, l’avvio di una politica di democratizzazione cinese che portasse, almeno in termini embrionale, ad una libertà di pensiero.

Le proteste sono iniziate nel marzo del 2008 ad opera dei monaci tibetani che sono usciti dai monasteri e hanno coinvolto migliaia di giovani che si battono per un Tibet libero.

Le Olimpiadi potevano rappresentare un segnale di svolta, ma la totale chiusura di Pechino ha portato invece alla più imponente scorta alla fiaccola olimpica di tutti i tempi: vivo è il ricordo dei tedofori scortati dalla polizia degli stati in cui passava e da uno speciale nucleo di agenti cinesi: ogni forma di protesta, anche negli ’stati liberi’ è stata ’stordita’ dai governi occidentali preoccupati da ragioni di carattere economico e finanziario, visto che oggi non si può fare a meno dell’economia cinese e del suo mercato, con una crescita del Pil a due cifre, almeno fino all’inizio dell’anno scorso.

Il cinismo politico di un capitalismo malato ha ancora una volta portato ad anteporre il guadagno ai diritti umani, alla libertà di pensiero e di stampa, alle rivendicazioni di lavoratori sfruttati e sottopagati in ragione di uno sviluppo che, come insegnava Pier Paolo Pasolini, non è sinonimo di progresso.

Per quest’anno le preoccupazioni di Hu Jintao non si fermano al Tibet, ma con ogni probabilità si manifesteranno anche sul fronte interno, vista la ricorrenza dei vent’anni del movimento del 4 giugno, meglio conosciuto come la protesta studentesca di piazza Tiananmen del 1989.

Di lì a poco il sistema comunista sovietico sarebbe collassato e sarebbe caduta la cortina di ferro che, dalla fine della seconda guerra mondiale, divideva l’Europa, sarebbe crollato il muro di Berlino, Regan e Gorbacev avrebbero posto fine alla guerra fredda, l’Unione Europea si sarebbe consolidata e avrebbe allargato i suoi confini a terre impensabili per chi ha vissuto negli anni ’70.

L’autoritarismo comunista cinese resiste ancora, ma resiste anche la voglia di libertà del popolo tibetano. 


Foto AsiaNews

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