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Terremoto: Vittorio Sconci quattro mesi "da matti"...

Intervista di Maria Cattini, L’Aquila, 5 agosto 2009.

A 4 mesi dal sisma incontriamo il dott. Vittorio Sconci, Capo Dipartimento di Salute Mentale della ASL dell’Aquila. L’uomo che ha fatto la scelta, contro tutto e contro tutti, di far vivere cinquanta malati psichici in tenda dentro il Campo Globo insieme a tutti gli altri sfollati e di ricominciare, attraverso la quotidianità, a garantire loro il pieno diritto di cittadinanza.

A livello psicologico, a distanza di 4 mesi, il terremoto come viene percepito dalla popolazione?

Chiaramente questa esperienza ha condizionato la nostra prospettiva di vita. La nostra vita è diversa, sia a livello sociale che a livello economico, cambiano le abitudini e i progetti per il futuro. E’ un evento traumatico grave e, quindi, che ci sia questa paura è più che normale. Il problema però è che la paura deve essere superata. E qual è il modo per superarla? Non vedersi da soli davanti a questo fenomeno. Perché la paura deve essere vissuta a livello collettivo ed intorno a dei programmi e a dei progetti che le persone devono condividere. Tutti debbono sentirsi uguali davanti al terremoto e debbono trovare delle certezze che qualcuno deve dare loro, a livello istituzionale. La garanzia che la casa A) sia abitabile è una garanzia che le istituzioni debbono dare, con delle scelte precise, con degli input chiari. Le persone non possono assolutamente risolvere il problema con un rapporto personale tra sé e l’evento sismico. A partire dal condominio che era una comunità, ora il fatto di essere tutti sparpagliati, rende più difficile affrontare il trauma … E questo è il dramma, perché in un momento in cui tutti dovrebbero essere uniti di fronte a dei progetti che ci mettano insieme, il problema attuale qual è? quello dello sfaldamento del tessuto sociale. Perché dal momento che si verifica questo, non c’è una risposta univoca di fronte all’evento. Le persone riducono la paura nel momento in cui si vedono tutti insieme nel fronteggiare la paura. Nel momento in cui la persona si vede da sola, senza una teoria, senza una missiva, senza un’ordinanza chiara, chiaramente ripiega su se stesso e va in angoscia. Manca chiarezza proprio in un momento in cui bisogna dare input precisi: tutte le persone che hanno una casa A) dovrebbero entrare in casa dopo 10 giorni, non dopo 4 mesi. Chiaramente la paura diminuisce perché c’è una certezza: chi sia assume la responsabilità o è matto o trasmette tranquillità.

Ma se le case A) che non sono abitabili?

Quello è un altro aspetto, io sto parlando solo dell’aspetto psicologico per vincere la paura. Intorno a queste paure ciascuno di noi ha costruito le proprie fantasie, le proprie debolezze che si porta dietro da una vita intera. Le istituzioni debbono assumersi la responsabilità di dare risposte chiare e questo tipo di messaggio avrebbe inevitabilmente abbassato i livelli di paura. Invece danno messaggi completamente diversi che accumulano ansia e paura nella gente spaesata. La gente, se percepisce la forza si fa aiutare ma scappa nel momento in cui non vede punti di riferimento. Faccio un esempio banale: un bambino rimane in casa laddove i genitori danno sicurezza. Nel momento in cui c’è l’assenza della figura genitoriale il bambino scappa e cerca certezze altrove. Forse quello che è mancato è un chiaro rapporto tra la persona e l’evento sismico. L’evento sismico è visto non più come un evento naturale ma come una maledizione. Dobbiamo invece capire che il terremoto è un qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, e il fatto di aver negato per anni questa evenienza a che cosa ci ha portato? Oltre ad impaurirci tanto adesso, a rimuovere il problema fino ad ora. Doveva portare invece le amministrazioni e gli imprenditori a fare delle scelte antisismiche da 40 anni a questa parte. E questa per me è la cosa su cui bisogna riflettere. Se noi vediamo il terremoto come nemico, ad un certo punto noi fuggiamo e, se possibile, poi ce ne dimentichiamo. O lo eviti o lo rimuovi. Se invece lo vedi come un qualcosa con cui devi competere, allora a quel punto trovi tutti i metodi per poter combattere e bloccare la sua “cattiveria”. Bisogna difendersi da questo evento, che è un evento naturale e che quindi deve rientrare nelle normali accortezze che ognuno di noi deve avere per conviverci. È la paura che detta purtroppo molte regole oggi.

Qual è il problema che si pone in futuro?

E’ il problema sociale quello che più preoccupa. Avremo lo sfilacciamento sociale che sarà alimentato soprattutto da questa differenza assurda tra gruppi che si sono divisi: la disperazione è uguale per tutti e dunque tutti devono essere protagonisti della ricostruzione. Invece si sta creando un brutto clima con una frattura tra chi vive sulla costa e "aspetta", e chi sta all’Aquila, e "soffre". Per risanare questa divisione chiaramente ci vorranno anni, perché proprio in un momento in cui c’è bisogno di omologazione tutti dobbiamo essere uguali nell’affrontare il problema ma non siamo tutti uguali e così viene a mancare la forza propulsiva per andare avanti. Dobbiamo essere tutti uguali anche rispetto alla possibilità di ricostruire o non ricostruire? E’ un sillogismo. Tu sei stato privilegiato adesso, devi essere danneggiato dopo; io sono stato danneggiato adesso, devo essere privilegiato dopo. Quindi si creano delle contraddizioni tra le persone che invece avevano storie diverse. …Nel momento di massima disgregazione, noi medici ci siamo trovati tutti responsabili di questa storia. Ci siamo trovati tutti uguali davanti ad una necessità, perché abbiamo capito che se non funzionava l’ospedale mancava un servizio, e ci siamo ricompattati con un obiettivo comune nonostante le tante divisioni del passato. In questo caso il terremoto ci ha unito.


I “pazienti” come hanno reagito al terremoto e a questa nuova situazione?

Il terremoto ha sorpreso queste persone nelle case-famiglia e sono stati bravissimi. Subito dopo la scossa delle 3.32 siamo andati a prenderli casa per casa, e loro erano lì, davanti alle abitazioni, spaventati, certo, ma composti, che ci aspettavano. Il vero terremoto per loro e per il servizio è iniziato dopo. E’ stata una guerra quando ho preteso che i “matti” rimanessero al Globo: figuriamoci in un campo di mille persone, 50 “matti… è una bella percentuale. Ci siamo riusciti perché tutti quanti noi operatori ci siamo sentiti all’unanimità d’accordo sul fatto che nella considerazione dei loro diritti, ripartire dalle tende significava ripercorrere il percorso fatto prima. Perché ripartendo dalle tende facendoli sentire come gli altri noi abbiamo rinnestato: prima un bisogno diffuso di non-alternativo, per noi e per loro. Secondo: abbiamo ricreato quel rapporto privilegiato contesto cittadino-matti che in questa città ha sempre pagato ed è sempre andato bene. Terzo: abbiamo portato avanti il discorso della solidarietà. Quindi intorno a tre pilastri importanti che rappresentano gli elementi determinanti del nostro lavoro ormai da anni, ci siamo trovati tutti uguali e siamo andati avanti. Abbiamo creato i presupposti per una convivenza. Se minimamente io avessi rinunciato, 20 anni di storia si sarebbero polverizzati. …. Nel momento in cui noi abbiamo messo queste persone in tenda, è nato subito il bisogno di non-alternativo. Se noi li avessimo portati al mare, dei “matti” si sarebbero dimenticati tutti e della psichiatria all’Aquila non se ne sarebbe più parlato, le case famiglie non si sarebbero più rifatte. Guarda caso le prime casette che saranno abitate, saranno quelle destinate ai pazienti del Dipartimento di salute mentale: le casette a Paganica regalateci dal Milan e le casette a Collemaggio regalateci dal Trentino e dall’Associazione Nazionale Alpini. Intorno a questa situazione abbiamo ricreato un tessuto sociale, lo stesso percorso fatto in precedenza. I problemi di integrazione dell’inizio sono solo un ricordo, ora la gente si è affezionata, e dice “non ve ne andate”, a fronte di chissà quante polemiche iniziali … Ma anche alcuni pazienti che non se ne vogliono andare, la comunità del campo li ha coinvolti e si sentono accettati, quindi hanno nostalgia. E’ bello vedere il servizio è rinato. In un momento di disgregazione, in cui si perdono tante cose, la casa, la salute, che il terremoto mina…se finisce anche il lavoro che cosa ci rimane? Invece noi, garantendo il servizio, abbiamo garantito il lavoro.

Quindi ora che vanno nelle casette, c’è un ritorno alla normalità per loro?

L’attività del Dipartimento non si è mai interrotta. Abbiamo riprodotto il servizio nel campo, nelle casette e anche quando torneremo nelle case. Già due case famiglia a Paganica sono aperte da tre mesi, di categoria A) ed ora abbiamo a disposizione le altre casette di legno della Provincia di Trento dove ci trasferiremo la settimana prossima. La sfida era non cedere alla tentazione di riformare piccole unità manicomiali, di non privare queste persone dei legami affettivi che hanno sviluppato nel tempo. E il matrimonio tra i due pazienti? Il matrimonio è stata una cosa bellissima perché lì si è vista la partecipazione di tutto il campo a questo evento. Non mi stancherò mai di ringraziare la Protezione Civile, la Marina, l’Avis, gli Alpini, l’Esercito: hanno creato un bellissimo evento, importante. Gli sposi comunque avevano già deciso da tempo di sposarsi, anche prima del terremoto, quello che hanno voluto è stato sposarsi nel campo prima di andarsene.

L’esperienza precedente del terremoto in Umbria, riguardo alla problematica della salute mentale com’era stata?

Non so rispondere. La nostra posizione all’inizio è sembrata strana e irriverente, perché la Protezione Civile non pensava che saremmo riusciti a far convivere 50 “matti” in un campo in una situazione di quotidianità. E’ chiaro che la Protezione Civile non conosceva la storia del nostro dipartimento, e per loro, in una situazione di emergenza, la priorità era avere meno problemi possibili. Loro pensavano che questi “matti” sarebbero stati ulteriori problemi per loro. Alla fine però si è trovata una mediazione. E’ chiaro che se non ci fosse stato l’orgoglio del nostro dipartimento e delle posizioni chiare e ferme, avremmo avuto dei problemi con la Protezione Civile ma, d’altronde, i buoni risultati si raggiungono se c’è chiarezza. Molto probabilmente adesso apprezzano di più quello che abbiamo fatto.

Cosa vorrebbe nell’immediato?

Protezione civile e psicologi insieme in un progetto comune per far sì che le persone possano in qualche misura determinare le scelte della ricostruzione. Quindi parlo di una proposta culturale forte. Il problema è che non posso dirti se questo si verificherà mai … è una cosa che devono decidere gli altri.

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