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Spesa pubblica: l’illusione monetaria dei keynesiani all’italiana

Mentre il paese si prepara ad andare a sbattere con violenza contro gli scogli della realtà, con un deterioramento delle condizioni economiche frutto delle scelte demenziali di questo governo, tali da pompare incertezza ed amplificare la negativa congiuntura globale e soprattutto europea, ci sono poche speranze che il paradigma fallito che ci ha portati sin qui possa essere rovesciato in tempo per evitare il naufragio. Anzi, è assai probabile che questo stesso paradigma verrà riproposto da qualsiasi altra forza politica ambisca al timone del relitto Italia.

Sono due i capisaldi di questo fallimentare paradigma. Il primo è il convincimento che la spesa pubblica sia la leva strategica per aumentare non solo il livello del Pil ma anche la sua pendenza, cioè il tasso di crescita. Da lì originano tutte le idiozie su leggendari moltiplicatori della spesa, non solo di quella per investimenti ma anche di quella corrente.

Ovviamente, questa credenza è quella che ha portato il paese ad avere una spesa pubblica di qualità infima, e col passare del tempo ulteriormente degradata da tagli necessari a tenerla sotto controllo, in presenza di aumento della spesa per interessi sul debito pubblico.

Malgrado anni di denaro facile della Bce, l’Italia non è riuscita a piegare il rapporto debito-Pil a causa di una crescita nominale sempre inferiore al costo medio del debito. In conseguenza di ciò, ecco l’esigenza di incaprettarsi con persistenti ed elevati avanzi primari, che qualche genio pensa siano una raccolta punti da far valere a Bruxelles per vincere più deficit anziché la misura tangibile del fallimento della politica economica di un paese. Che fare, qui? Di certo, suggerire di monetizzare il debito “perché tanto l’inflazione è bassa” non porterà in Italia il Nobel per l’Economia.

Eppure, ad ogni legislatura, non manca mai la proposta geniale che vede spesa pubblica in aumento ed in grado di aumentare livello e pendenza del Pil. Un classico esempio di follia, quello di credere che ripetendo ossessivamente le stesse azioni si possa conseguire un esito differente.

L’altro caposaldo del paradigma è quello che crede che il problema italiano sia una insufficiente competitività a causa del cambio. In pratica, si argomenta, svalutando il cambio riusciremmo ad aumentare la crescita. Anche no. Intanto, i dati sulla competitività indicano che l’Italia dispone già oggi di un settore produttivo vocato all’export che è molto competitivo, pur se non molto grande.

Questa tesi non considera inoltre l’esistenza delle catene globali del valore (Global Value Chain) che sono quelle che hanno sin qui determinato un aumento del contenuto di import delle esportazioni. Detto in parole povere, i componenti del prodotto finito viaggiano attraverso i confini, spesso facendo la spola. Quindi una svalutazione serve assai meno di un tempo, e rischia di essere controproducente.

Credere che un paese competa sulla base del solo fattore prezzo, o meglio che quest’ultimo dipenda in modo determinante dal cambio anziché dal contenuto di valore aggiunto e dalla crescita della produttività è argomentazione che penso non usino più neppure in Bangladesh. Ma evidentemente, in Italia c’è un mainstream rimasto agli anni Settanta o che ambisce a retrocedere nella catena del valore. Non è un caso che, mentre noi facciamo la ola per le fulgide prospettive di esportazione di arance, altri vendono Airbus alla Cina. Ho la sensazione che il nostro deficit commerciale bilaterale con Pechino non si ridurrà, anzi.

Un corollario del secondo caposaldo sostiene ossessivamente da anni che “se non si può svalutare il cambio, si svaluta il lavoro”. Ottimo punto per chi soffre di illusione monetaria e vede un mondo fatto di grandezze nominali e non reali.

Prescindiamo per il momento dalla capacità di innovazione, ci porterebbe troppo al largo. Focalizziamoci sulla frontiera tecnologica esistente, e quindi sul breve-medio termine. Vedete, se il problema è recuperare competitività, e non si ritiene di dare peso a quella fanfaluca per professoroni nota come produttività (che qualche giornalista pensa derivi dal numero di ore lavorate pro capite, pensate che pazienza occorre), allora sappiate che la competitività si misura come metrica reale, e non nominale.

Quindi? Quindi svalutazione nominale del cambio richiede comunque svalutazione dei salari reali, altrimenti niente recupero di competitività, signora mia. Ma questo non vi verrà detto, ovviamente.

In sintesi: in Italia vige una forma di “keynesismo” caricaturale, dove la spesa pubblica (meglio se corrente) è il pivot di tutto (sia in recessione che in espansione), oltre ad una patologica illusione monetaria che ignora che le uniche variabili che contano, in economia, sono quelle reali. Probabile che l’Italia sia stata pesantemente spiazzata dalla globalizzazione, in cui è entrata con un’economia mediamente a basso valore aggiunto ed un settore domestico di servizi non tradable che spesso sono caratteristici dell’economia di vicolo. Ma le ricette che continuano ad essere proposte sono la via diretta per il fallimento.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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