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Gheddafi ucciso: sic transit gloria mundi

Proprio come avvenne per Saddam Hussein, anche il dittatore libico è stato catturato in una squallida buca di fortuna nella sua città natale.

Le ricostruzioni di quegli istanti riferiscono di un colonnello improvvisamente rinsavito, di certo spogliato della sua consueta armatura tutta protervia e intimidazione. Anzi, come confermerebbero pure le sequenze che da ieri rimbalzano da un canale televisivo all'altro (guarda il video), finalmente impaurito. Al punto da urlare ai rivoluzionari in procinto di catturarlo: "Non sparate, non sparate!".

Una supplica che chissà quante volte avrà lui stesso udito da parte di migliaia di dissidenti e oppositori politici col terrore negli occhi, prima che venissero freddati senza pietà dai suoi pretoriani e mercenari.

Ora è dunque venuto il suo momento, per il cinico contrappasso della storia. Che di solito sa come prendersi beffe del malcapitato di turno. A premere il grilletto contro Gheddafi, per fargli sentire l'ultimo ronzio di pallottola della sua controversa esistenza, è stato un ribelle appena diciottenne col cappellino dei mitici New York Yankees sulla testa. Un eroe ragazzino, all'anagrafe Mohammed al-Bibi, che a guardarlo in volto rappresenta quanto di più distante possa esserci dal prototipo del sanguinario jihadista e nel contempo il simbolo della rinascita, della ritrovata speranza dopo oltre quarant'anni di miseria e di violenta repressione.

Volendoci spingere oltre, in quel giovane possiamo scorgere pure i segni della riscossa generazionale di milioni di ragazzi che, perfino nel più evoluto occidente, sono stati emarginati dall'egoismo di società gerontocratiche e condannati a vivere in un eterno presente con l'unico mandato di pagare le colpe di chi li ha preceduti. Ecco, la pistola d'oro che Mohammed stringe nella mano, il malefico e fatale trofeo sottratto al deposto rais, è l'immagine del riconquistato futuro. Oltre che un chiaro monito per tutti coloro i quali, soprattutto nell'evoluto occidente, si ostinano ad arroccarsi in difesa di privilegi non sempre conseguiti con giustizia e merito.

 


Muammar Gheddafi è stato il satrapo più longevo del mondo arabo. Ha esercitato il suo dominio sulla Libia per quasi 42 anni dopo aver rovesciato, nel lontano 1969, il vecchio re Idris con un colpo di Stato. Da allora si è autoproclamato "Guida della grande rivoluzione della Jamahiriya araba libica popolare e socialista", una finzione propagandistica per giustificare il proprio potere illudendo l'opinione pubblica interna e mondiale circa l'esistenza in quel Paese di una sorta di "governo delle masse", al quale la stessa autorità del leader sarebbe stata subordinata.

In realtà, Gheddafi non ha mai goduto di un vero sostegno politico sulla scena internazionale, nemmeno dalla gran parte degli Stati arabi e africani, per aver offerto appoggio a movimenti radicali non soltanto di matrice islamica. Quasi sempre a vuoto sono caduti i suoi richiami al panarabismo, per una comune battaglia contro l'imperialismo occidentale.

Almeno dagli anni '80, la sua feroce indole anti-israeliana e anti-americana lo ha portato a intrattenere ambigui rapporti com vari gruppi terroristi in tutto il mondo, dall'IRA irlandese al Settembre Nero palestinese. Tra gli atti più eclatanti, si ricordano la provocazione del lancio di un missile contro le coste siciliane, fatto però cadere in mare aperto, e l'aereo passeggeri fatto esplodere nel 1988 sopra la cittadina scozzese di Lockerbie, che causò la morte di 270 persone. Senza dimenticare il ricorrente presunto coinvolgimento dei servizi segreti e delle forze aeree libiche nella mai completamente risolta vicenda di Ustica.

Ebbene, anche in Italia alcuni analisti e osservatori, specialmente politici e giornalisti di una certa area culturale, non fanno che ripetere da ieri che non bisogna mai gioire per la morte di un uomo, che la sindrome da Piazzale Loreto cozza con le regole di civiltà democratica e cose simili. Ciò che davvero conta, tuttavia, almeno agli occhi di chi forse non può definirsi un liberale con la elle maiuscola alla Ferrara, alla Sgarbi o come i vari pseudogarantisti orfani del craxismo, ma un sincero repubblicano certamente sì (nella nostra accezione e non in quella statunitense), è il suono ritmato dai clacson delle auto e dalle sirene delle navi ancorate nel porto di Tripoli che ha accolto la notizia dell'uccisione di Gheddafi, dando il via ai festeggiamenti di piazza del popolo libico per la fine di un immondo regime. E' il rumore assordante delle raffiche di kalashnikov, coperto solo dalle urla di felicità dei libici ansiosi di voltare pagina.

 


Personalmente, trovo che ci sia più da scandalizzarsi per la citazione latina del nostro recidivo premier: "Sic transit gloria mundi". Certo, come per Mussolini o per Craxi per limitarci alle nostre vicende nazionali. E come per ogni piccolo o grande autocrate sparso per il pianeta, che proprio non vuole accettare che è quella la sorte che tocca a chi bada solo ai propri interessi, generalmente illeciti, scordandosi dei bisogni della gente comune. Troppo comodo fingersi dotti fatalisti adesso che l'indecente amico di un tempo non c'è più, quello a cui tutto si concedeva, baciamano compreso.

Se poi quel commento a caldo non voleva essere una presa di distanza postuma ma un inno all'inesistente gloria di un personaggio che si è macchiato di crimini atroci, la circostanza è ancor più orrenda e volgare.

Gheddafi è morto, è stato giustiziato per mano del suo popolo come era giusto che fosse. E la sua fine non basterà a cancellare le enormi sofferenze patite da milioni di libici in tutti questi anni. Sì, l'auspicio è che tocchi presto ad altri infami dittatori identico destino. C'è solo l'imbarazzo della scelta...

 

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