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Aiuti di Stato: la giungla degli sprechi pubblici fra politica, imprese e welfare

Perché gli europei del Nord, e i tedeschi in particolare, continuano a non sopportarci e ad essere rigidi verso di noi? Abbiamo finalmente un governo che prova a fare le cose che vanno fatte senza badare al consenso, un premier che ci invidia il mondo intero, un Capo dello Stato che non perde occasione per ammonire, censurare e perfino stoppare le velleità di un ceto politico sempre concentrato sul proprio tornaconto a scapito dell'interesse nazionale, che ormai coincide sempre più con quello dell'intero Continente. Eppure l'Italietta, agli occhi dell'Occidente che conta, rimane sempre l'Italietta coi suoi molti vizi e le sue pochissime virtù. E non basta gridare al pregiudizio, e a volte al razzismo, per trovare le motivazioni di tanta diffidenza. No, il vittimismo non regge più. Dovremmo invece sforzarci di guardare a come siamo e ci comportiamo per capire perché gli altri non ci capiscono, magari con tanto di mea culpa.

Del resto, gli scandali - che non riguardano solo la politica e il mondo dell'alta finanza ma sono purtroppo all'ordine del giorno nell'intero tessuto sociale - sono già sufficienti a giustificare la scarsa considerazione di cui godiamo fuori dei nostri confini. C'è però qualcosa che va oltre il semplice malaffare e che chiama insieme in causa il malcostume dello Stato, del mondo dell'impresa e della società stessa a prescindere dall'innata propensione italica all'illegalità: lo sperpero delle risorse pubbliche. Che assieme alla corruzione e alla presenza storica della criminalità organizzata è l'altro grande "bubbone" che ha generato il nostro enorme debito pubblico, pregiudicando ogni possibilità di sviluppo virtuoso sul piano civile ancor prima che su quello economico.

COSTI DELLA POLITICA

Come anche gli ultimissimi fatti di cronaca dimostrano, fra i principali protagonisti degli sprechi pubblici italiani vi è senza dubbio la classe politica, da sempre abituata allo sperpero in ogni sede istituzionale, dal Parlamento agli enti locali. I casi delle Regioni Lazio e Lombardia sono forse solo i più eclatanti, ma l'andazzo riguarda anche altre realtà meno evidenti e sempre a spese dei cittadini contribuenti. Che a fronte di imposte sempre più alte assistono al "magna magna" generale senza ricevere in cambio dai propri amministratori servizi adeguati.

Proprio le Regioni, che prima del recente decreto del governo sui tagli ai costi della politica potevano vivere al di sopra delle proprie possibilità senza controlli efficaci, si sono nel tempo trasformate in "bancomat partitocratici" per consentire ai gruppi consiliari di darsi alle spese pazze quasi sempre non giustificate. 8 Consigli Regionali su 12, ad esempio, analizzati ultimamente in un dossier del Corriere della Sera, hanno addirittura previsto nei propri regolamenti la non obbligatorietà dell'emissione dei documenti giustificativi delle spese e della descrizione della finalità delle stesse. Insomma, con una semplice autocertificazione ogni viaggio, acquisto, festino diventava lecito.

Andando nel dettaglio delle situazioni delle singole Regioni, spuntano casi in cui il capitolo di bilancio per le spese degli organi costituzionali raggiunge punte da fare invidia alla Casa Bianca. In Sicilia, ad esempio, si spendono per quella voce 167,5 milioni di euro all'anno, pari a 3.317 euro ogni 100 abitanti. Ma pure le province autonome di Trento e Bolzano non scherzano, spendendo rispettivamente 13,1 milioni di euro annui (2.647,1 euro ogni 100 abitanti) e 8,4 milioni di euro annui (1.649,6 euro ogni 100 abitanti).

Il fatto, poi, che in molte Regioni il regime giuridico ed economico dei Consiglieri è di fatto equiparato a quello dei Parlamentari è dimostrato dal proliferare delle commissioni, tutte ben retribuite. In questo caso il primato spetta al Lazio con 21 commissioni, seguito da Sicilia e Lombardia con 14. Senza dimenticare la possibilità di costituire i cosiddetti mono-gruppi, composti da un solo Consigliere, con l'inevitabile moltiplicazione degli annessi privilegi. Così come non vanno sottovalutate nemmeno le spese ingenti che riguardano gli studi e le consulenze, con la Provincia di Trento che non spicca certo per virtuosismo spendendo più di 5.000 euro ogni 100 abitanti.

Ma quale Regione spende di più per gli emolumenti del proprio Presidente della Giunta? La Lombardia, con 14.767 euro al mese per il "Celeste" Formigoni. Seguita dalla Puglia di Vendola, che percepisce 14.595 euro mensili, e dall'immancabile Sicilia di Lombardo con 14.192 euro mensili. Tanto, troppo. Come eccessiva e forse ancora più clamorosa è la cifra destinata ai complessivi 1.111 Consiglieri Regionali italiani, ognuno dei quali costa ben 743.000 euro all'anno.

Dai rendiconti 2011 dei Consigli Regionali, inoltre, emerge che le Regioni che spendono di più per le indennità e i vitalizi sono la Sicilia (21 milioni all'anno), la Sardegna e il Lazio (entrambe oltre 16 milioni annui) e la Campania (14 milioni annui), mentre ai primissimi posti per le spese folli si trovano le piccole Molise e Valle d'Aosta. Per quanto riguarda, invece, i fondi pubblici destinati ai gruppi politici abbiamo sempre la Sicilia in testa con 12 milioni e 600 mila euro annui (senza obbligo di rendicontazione) e a seguire la Lombardia con 12 milioni e 300 mila euro annui. Il Lazio è un caso a sé, avendo attivato un'unica e confusa posta di bilancio di 52,2 milioni di euro all'anno dove sarebbero incluse anche le spese di rappresentanza del Presidente del Consiglio Regionale, quelle postali e telefoniche e quelle per la cancelleria.

Insomma, si tratta di cifre mostruose non più tollerabili in una fase di grave disagio economico che affligge il Paese, e che spreco dopo spreco hanno condotto al disastro finanziario Regioni come il Molise, la Sicilia, la Calabria, la Basilicata e, da ultimo, il Piemonte. Se il mito del decentramento fiscale ed amministrativo, alimentato da vent'anni di retorica federalista, ha portato a tutto questo forse è il caso di ripensare il modello delle autonomie, a partire dalle Regioni a statuto speciale, e di recuperare, assieme ai necessari controlli di legittimità, maggiore efficienza e autorità da parte dello Stato tornando al centro di spesa unico nazionale.

AIUTI ALLE IMPRESE

L'altro grande segmento di spreco è quello relativo ai cosiddetti incentivi di Stato alle imprese. Qui è l'Istat a fornire il quadro generale. Solo nel 2011, il totale dei trasferimenti al sistema produttivo è stato di 32,899 miliardi di euro. A cui devono aggiungersi i 15,005 miliardi a carico dello Stato, i 17,168 miliardi fuoriusciti dagli enti locali ed altre somme residuali provenienti sempre dalla Pubblica Amministrazione. Un calderone immenso, dove la parte del leone spetta ai settori di pubblica utilità, in particolare ai trasporti pubblici e alle Poste, ma che di fatto spesso si riduce all'elargizione di sovvenzioni destinate ad altre attività a latere che nulla hanno a che fare con quella imprenditoriale o industriale vera e propria: Enav, Centri studi, scuole e università private, municipalizzate.

L'ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato, invece, recepito dal prof. Giavazzi nella sua relazione al governo, prende in esame le sole risorse finanziarie erogate alle imprese sotto forma di incentivi puri (in forma diretta o di agevolazioni fiscali e contributive), vale a dire senza il vincolo di alcuna forma di controprestazione in servizi o, più volgarmente, "a fondo perduto". Se ne ricava che tra il 2007 e il 2011 l'ammontare complessivo erogato è stato pari a 42,6 miliardi di euro, con la cifra più alta toccata nel 2010: 10,4 miliardi.

Nella classifica generale dei settori aiutati direttamente primeggia l'industria, seguita dai servizi e dall'agricoltura. In particolare, a svettare su tutti nell'ultimo quinquennio è il settore aeronautico, che ha assorbito il 18,3% degli incentivi per un totale di 7,8 miliardi. Da segnalare come gli incentivi alla ricerca e allo sviluppo rappresentino appena il 4,3% del totale con 1,8 miliardi di euro.

Il problema, anche in questo caso, non è rappresentato dalla possibilità di aiutare la crescita attraverso gli incentivi e le agevolazioni al sistema produttivo, ma dal cattivo uso che dell'enorme mole di sovvenzioni pubbliche viene fatto da numerose imprese, quasi sempre con la compiacenza della politica interessata a comprare i consensi per conservare il potere.

Emblematici sono i casi Sulcis e Alcoa in Sardegna o quello dell'Ilva a Taranto, dove le politiche industriali dei governi che nei decenni si sono succeduti si sono trasformate in massicce operazioni clientelari a danno dello sviluppo, della salute e del lavoro. Non tralasciando come la progressiva statalizzazione dell'industria, che nella prima Repubblica ha interessato marchi come Fiat e Alitalia a suon di aumento periodico delle tasse per i cittadini, ha finito per indebolire la capacità concorrenziale di molte imprese con gravi ricadute sul mercato che, talvolta, hanno portato al loro definitivo fallimento.

Bisogna aggiungere, tuttavia, che lo stesso contesto legislativo, come si è visto anche con le feroci resistenze delle tante lobby e corporazioni ai tentativi di riforme e liberalizzazioni portati avanti dal governo Monti, è molto intricato e certamente non favorisce la razionalizzazione degli aiuti pubblici alle imprese in modo da favorire quelle che effettivamente producono, competono e creano lavoro.

Sempre la Ragioneria dello Stato osserva che disperse nel nostro ordinamento si individuano ben 89 leggi destinate a fornire incentivi: 66 in forma diretta e 23 in forma indiretta tra agevolazioni fiscali (soprattutto il credito di imposta), contributive e previdenziali. Una miriade di norme che non contribuiscono a trasformare gli aiuti alle imprese in reali occasioni di sviluppo e che troppo spesso rappresentano solo delle prebende male investite e ancor peggio gestite, collocando l’Italia sotto la media europea in termini di costi-benefici nel rapporto fra contributi pubblici alla produzione e competitività delle aziende sui mercati internazionali.

SPESA SOCIALE

Infine il welfare, quel feticcio ideologico a cui lo Stato italiano s'è immolato fin dall'epoca fascista per "servire i bisogni del popolo" (che spesso, più che bisogni, erano e sono semplicemente capricci), fino a incancrenirsi dando sfogo nel tempo a mere e dannose politiche assistenziali pretese dall'invasività dei sindacati nella gestione della cosa pubblica e dal consociativismo conservatore dei due moloch che hanno dominato la scena politica negli anni '60, '70 e '80: la DC e il PCI.

Lo Stato sociale, dove funziona, rappresenta una grande conquista di civiltà in grado di far progredire davvero le comunità nazionali. Ma in Italia non è così, non lo è mai stato. Da noi il welfare ha sempre significato attingere fino al tracollo finanziario dello Stato dalle casse pubbliche, soprattutto a livello di spesa sanitaria e pensionistica. L'associazione Prometeia, che si occupa da più di 30 anni di analisi economiche, sintetizza così la condizione reale del welfare italiano: "Negli anni dell'espansione dello Stato sociale, ci furono molte distorsioni: il pubblico impiego utilizzato come ammortizzatore sociale, un sistema pensionistico troppo generoso e, in particolare, il deleterio fenomeno delle pensioni baby".

Già, le pensioni baby nel pubblico impiego, con erogazioni statali che risulteranno equivalenti al triplo dei contributi effettivamente versati, pari a circa 9 miliardi e mezzo all'anno su 240 miliardi di spesa pensionistica totale, e che faranno di tantissimi cittadini iper garantiti il simbolo dell'impostazione clientelare e corporativa della spesa sociale italiana, fondata sulla concertazione e sul primato delle caste al cui servizio la politica ha costretto l'Inps per oltre mezzo secolo solo al fine, inutile ribadirlo, di guadagnare il consenso.

È del tutto evidente che adesso, malgrado gli schiamazzi di chi proprio non vuole rinunciare ad antichi privilegi e viene sempre assecondato dal sindacato e dalla politica irresponsabili, se vogliamo evitare di seguire le orme di altre "allegre" realtà europee affacciate sul Mediterraneo, dobbiamo imporci un sensibile cambio di rotta e provare a correggere un sistema non più sostenibile. La crisi, in sostanza, in tutto il Vecchio Continente e specialmente in contesti viziati come quello italiano, deve essere un’occasione per cambiare le nostre abitudini e riflettere su quale modello di Stato sociale è più opportuno sostenere ai fini della ripresa economica. Poiché non si può più pensare di mantenere gli squilibri di spesa che hanno di fatto estromesso le nuove generazioni da ogni tipo di opportunità e di protezione.

Il passaggio definitivo al regime pensionistico contributivo per tutti voluto dall'attuale governo è stato senza dubbio un passo in avanti verso la virtuosità necessaria, anche se il carnet degli ammortizzatori sociali risente ancora eccessivamente di resistenze ed egoismi di parte, perfino di incongruenze tecniche come nel caso degli "esodati", e di quegli abusi e sprechi che, specialmente nei settori pubblici soggetti al controllo diretto della politica come sanità e istruzione, fanno sì che il risparmio e l'efficienza restino un miraggio.

Per fare un esempio concreto, per l'acquisto di beni e servizi nel comparto pubblico si spendono circa 170 miliardi all'anno, ed è proprio lì che si annidano molti sperperi a fronte di disservizi e disagi fortissimi per i cittadini. Quella del pubblico impiego è una fra le voci più sensibili proprio perché tocca da vicino interessi concreti, anche a livello politico, ma non si può continuare ad ignorare la prospettiva di ridurre il numero dei dipendenti dell'abnorme apparato statale prima che ci costringano a farlo le istituzioni europee con la pistola puntata alla tempia come è già toccato a Spagna e Grecia.

Insomma, il mondo è cambiato rapidamente (anche se probabilmente non proprio come ci saremmo attesi) e occorre assumere nuove linee di condotta tanto da parte delle istituzioni, politiche e finanziarie, quanto da parte della società nel suo complesso. Prendendo atto una volta per sempre che per riuscire a evitare che l'attuale declino diventi irreversibile, e a creare i presupposti di una ripartenza, le protezioni pubbliche di cui abbiamo goduto fino ad oggi sono semplicemente inimmaginabili.

Basta prendere in esame i dati forniti dalla Guardia di Finanza nei giorni scorsi per convincerci di quanto ci costi, in termini assoluti, una rete sociale dalle maglie troppo larghe e priva di controlli severi oltre che di criteri realmente equi e basati sul merito. Solo nei primi nove mesi del 2012, i contribuenti onesti hanno dovuto pagare 3 miliardi di euro per foraggiare istituzioni fraudolente e i molti finti poveri e falsi invalidi da esse favoriti. Fra questi, ovviamente, non mancano gli imprenditori, i commercianti e i professionisti ricchissimi che non pagano i buoni mensa per i figli e godono pure dell'esenzione dal ticket sanitario; così come i ciechi totali che guidano l'auto. Per non parlare dei tanti defunti che continuano a riscuotere la pensione per mano dei parenti vivi.

Così, anno dopo anno, abuso dopo abuso, spreco dopo spreco, l'Inps e soprattutto la Sanità pubblica si sono trasformati in un buco nero di vastissime proporzioni, con buona pace di chi ha sempre rispettato le regole e pagato le tasse. Ecco, nel dettaglio, i numeri del Rapporto delle Fiamme Gialle relativo alle frodi legate al welfare e al conseguente danno all'Erario, nel periodo gennaio-settembre 2012:

Frodi al Bilancio nazionale e locale

- Finanziamenti indebitamente percepiti e richiesti: 793.161.186 euro.

Truffe all'Inps

- Finanziamenti indebitamente percepiti e richiesti: 81.000.869 euro.

Spesa Sanitaria

- Totale frode: 65.098.768 euro.

Prestazioni sociali agevolate

- Totale frode: 5.886.751 euro.

Danni all'Erario

- Danni erariali accertati: 1.581.801.000 euro.

 

Allora, al netto dei pregiudizi che pure esistono, qualcuno ha ancora voglia di interrogarsi sul perché di tanta diffidenza nei confronti dell'Italia da parte di frau Merkel e degli altri virtuosi cittadini nordeuropei?

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