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Selfie: l’NSA usa le tue foto per il riconoscimento facciale

 

Il New York Times ha pubblicato l'ennesimo documento che racconta gli usi che la National Security Agency (Nsa) fa dei dati degli utenti. Questa volta il quotidiano americano ci mostra alcune pagine di un Power Point del 2011 dal titolo Image is Everything, che racconta come i dati biometrici (volto, iride, impronte digitali, voce e andatura), incrociati con quelli biografici (nome e cognome, indirizzo, educazione, codice fiscale…) e con quelli comportamentali (viaggi, dati finanziari, abitudini di consumo, uso dei social network…) permettono di ottenere un quadro molto preciso di un individuo e, di conseguenza, permettono di individuare dei possibili bersagli. 

Secondo i dati del New York Times la Nsa, soltanto nel 2011, avrebbe raccolto «milioni di immagini, 55mila delle quali sono di qualità abbastanza buona per poterle usare per il riconoscimento faciale». Si tratta di foto che arrivano dalle email, dagli sms e dagli mms, ma anche dai social network o dagli strumenti per fare conference call, per arrivare ai data base usati dai Paesi non americani. 

Il punto è, ancora una volta, come vengono usati questi dati e fino a che punto gli utenti ne sono consapevoli. Perché se da una parte c'è lo scandalo Datagate (in pochi immaginavano fino a che punto i nostri dati fossero utilizzati dai governi) dall'altra c'è l'uso che di questi stessi dati fanno i privati. E i privati non sono solo Facebook e Google - che stanno usando già il riconoscimento facciale - ma anche le aziende che li utilizzano a scopi commerciali. 

Come funziona il riconoscimento facciale? Si tratta né più né meno di una impronta digitale, ma della faccia. Ogni volto è associato a una formula matematica unica, che viene ricavata tracciando delle formule che tengono in conto alcuni fattori del volto tra cui la distanza tra gli occhi, la taglia del naso, la forma degli zigomi, la lunghezza della mandibola e la profondità delle orbite oculari. Una volta creato il "template", ovvero il tuo codice unico, questo viene incrociato con i dati che arrivano sì dalle foto (quelle che postiamo noi, quelle che sono nei nostri documenti o sui pass, quelle in cui ci taggano) o dai video. 

I software oggi non hanno ancora raggiunto gradi di precisione da fantascienza, ma riconoscimento facciale viene già usato a scopi commerciali: vengono usate telecamere per capire se il cliente è uomo o donna, bianco o nero, per esempio, e sulla base di quello proporre una pubblicità personalizzata. Nel momento in cui i software saranno più evoluti (e sarà possibile fare un match con i dati che arrivano dai social network, dalle mail, dai siti di ecommerce) la pubblicità che vedremo sarà tagliata su misura per noi. 

Per quanto riguarda la pubblica sicurezza, invece, il riconoscimento facciale è già usato dalla polizia di alcuni stati americani (e in Francia) per rintracciare i sospetti o nei casinò per intervenire con i clienti. 

Nonostante tutto questo, non c'è nessun complotto. Non ci sono forze oscure che ci spiano e ci rubano i dati (o l'anima). Da un lato ci sono i servizi di intelligence, che fanno il lavoro che hanno sempre fatto, e dall'altro ci sono le aziende che ci vogliono vendere quello producono. In una società dove le tecnologie evolvono troppo in fretta e con cittadini che si trovano a usare strumenti dei quali non hanno ben chiari scopi e regole. In mezzo, un grosso vuoto legislativo: perché non esistono ancora norme che tutelino gli utenti sull'uso delle immagini. 

Per questo, negli Stati Uniti è stata aperta, nel febbraio scorso, una consultazione. La National Telecommunications and Information Administration, NTIA), un'agenzia governativa che fa parte del Ministero del Commercio (sì, avete letto bene, del Commercio, non degli Interni) sta organizzando degli incontri con i rappresentanti delle imprese, con quelli dei consumatori, ma anche con associazioni e università, per «assicurare la trasparenza e il rispetto dei diritti dei consumatori […] negli usi commerciali attuali e futuri delle tecnologie di riconoscimento facciale».

I nostri dati hanno un valore (lo possiamo calcolare grazie a uno strumento messo on line dal Financial Times), ciò che condividiamo non è gratis: ogni link dice qualcosa di noi e dei nostri gusti, ogni like racconta una preferenza, ogni commento racconta una relazione, ogni geolocalizzazione racconta il nostro spazio. Bisogna solo esserne coscienti. 

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.161) 7 giugno 2014 23:50

    Buon articolo ma trovo sempre molto ingenuo l’affermazione spesso presente di un "vuoto legislativo". Le leggi non sono quelle scritte nero su bianco altrimenti Ruby non sarebbe la nipote di Mobarak come stabilito dal massimo organo legislativo italiano: la camera dei deputati, le leggi sono quelle fatte dalle persone che le interpretano e le applicano.

    In occidente le leggi le fa il più forte e noi italiani siamo sotto il protettorato americano per cui la Ruby di turno non è altro che la possibilità di dare i dati degli italiani agli USA stiracchiando qualsiasi legge possibile.

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