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Salvo: arriverà l’amore?

 Salvo, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. 

La bella canzone dei Modà e Emma, Arriverà, di un amore perduto e poi ritrovato, è presente in varie fasi del film e diventa, oltreché un filo conduttore, qualcosa di intimo, privato dei due protagonisti Rita e Salvo.

Lui è il killer di un’organizzazione criminale, un “cleaner” - ma non così clean come Jean Reno in Léon – che compie missioni omicide su incarico del suo boss, vive in incognito in Sicilia (per quanto in quell’isola si possa vivere in incognito), in località segreta e accudito di tutto punto da due camerieri, freddo e di poche parole, votato unicamente a quel mestiere.

Cinico e solo, non dispone nemmeno della doppia vita che conduceva un’altra recente esecutrice, “Miele”. Rita è la ragazza cieca nella cui casa Salvo penetra per ucciderne il fratello, assiste alla sua esecuzione con l’udito e, si direbbe, con tutti i sensi di cui dispone: l’interpretazione di Sara Serraiocco-Rita è fenomenale, le torsioni spasmodiche dei suoi occhi e dei muscoli del viso fanno immedesimare lo spettatore nella solitudine e nel silenzio della sua cecità, con le note di Arriverà che ascolta e canticchia.

Rita cantilena questa canzone anche quando si ritrova reclusa nel deposito di un’industria abbandonata (una scritta fuori è “lampisteria”), luogo simile a quelli tipici della fotografia spettrale di Daniele Ciprì: Salvo non l’ha uccisa, pure se la sua “missione” lo prevedeva, l’ha segregata in quel posto forse per compassione o per farne una persona sua, un suo segreto. La canzone è l’unico possesso di questa ragazza, l’unica cosa che la tiene legata alla vita (riferimento involontario a “La donna che canta”?), non ha più niente.

Film da ascoltare e soprattutto “sentire”, più delle immagini e delle parole lo riempiono i rumori. Solo questi accompagnano il silenzio della vita di Salvo (e ancor di più, di Rita, prima cieca e poi segregata), col sentire ne diventiamo partecipi. Salvo è il diminutivo di Salvatore: potrebbe dirsi che egli desideri uscire da quella vita e quel ruolo senza umanità, salvare sé stesso. Lo spunto gli è stato dato involontariamente da quel “bottino” di guerra che è Rita, che ha riacquistato la vista dopo il trauma vissuto. La prigioniera lo aggredisce, lo schiaffeggia e gli ripete “Cosa vuoi da me?” e l’aggressione si conclude con un abbraccio energico di Salvo. È il bisogno che lui ha di altre cose nei suoi giorni disumani, ma è un abbraccio provvidenziale pure per Rita, sola e senza nessuno (la “sindrome di Stoccolma” che unisce vittima e carceriere, come ne “Il portiere di notte”?).

Un segnale del desiderio di “salvarsi” è una volta il non voler cenare solo, si siede al tavolo di uno dei suoi camerieri, niente poco di meno che Luigi Lo Cascio (gradevole partecipazione al film, piccola ma significativa, e “amichevole”), che ha sempre cercato un contatto con quel killer, ne è ammirato, ha osservato perfino le sue mani ed è onorato della cena insieme. Altro segnale di voglia di liberarsi è che Salvo scioglie dalla catena il cane che latrava continuamente fuori dal suo rifugio, l’animale smette di abbaiare e gli si affeziona.

Salvo è del resto un ragazzo, dietro alla magnifica interpretazione e ai freddi occhi celesti di Saleh Bakri e alle sue fattezze vagamente da Terminator. In fondo poi anche il boss, Mario Pupella, è prigioniero di una vita da malvivente (letteralmente un mal vivere), con tutti quei morti abbandonati dietro alla “lampisteria” e con il contorno di tutti i suoi picciotti. Quando nel suo bunker sottoterra parla a Salvo, e questo gli tace di non aver eliminato la ragazza cieca, gli dice varie frasi che riassumono uno spaccato di vita maledetta: “Accussì ni riducemmu, comu e surgi” (così ci siamo ridotti, come i topi), “qua sotto non si respira”, “questa è la nostra vita, altra non ce n’è”, ma poi dice “mangiamo, i morti digiunano e noi vivi siamo”. Ottimo film e originale, merita molto più dei riconoscimenti ricevuti.

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