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Reddito e salario fatti a pezzi per delega in bianco

Verrebbe da dire che chi semina vento raccoglie tempesta. L’imminente e definitivo superamento del reddito di cittadinanza, in favore di misure alternative non individuate se non nel drastico contenimento dei beneficiari, non si può certo intestare al solo governo in carica.

 Una parte dell’opinione pubblica, anche alcuni di quelli che non stanno certo in condizioni agiate, aveva aderito alla rappresentazione farsesca e villana del percettore del debito di cittadinanza: un fannullone, un parassita, uno scansafatiche. Che stava a casa a lamentarsi del lavoro che non c’è – solo che quello che c’è, il più immediato, è sottopagato, senza orario, senza qualifiche. I partiti della trascorsa maggioranza hanno seminato coerentemente alla loro storia recente. Il movimento 5stelle poteva intestarsi di esserne stato tra i fautori, ma è la prima forza ad averlo fatto naufragare: praticamente ininterrottamente in maggioranza per quasi cinque anni, i pentastellati dovevano capire senza arrocchi come avvicinare il reddito al conflitto, al bisogno, alla disuguaglianza. Si sono ricordati di difenderlo tale e quale com’era in campagna elettorale: han fatto bene (per le loro fortune elettorali), disastrosamente però per dare uno straccio di continuità a quella misura. Il Partito Democratico, in sue componenti troppo schermate, troppo marginalizzate persino nel dibattito interno, lo aveva lanciato – insieme a misure per fissare un salario minino universale – ma è stata altra sveglia tardiva. Si è data del reddito un’impronta fasulla e strumentale, il reddito come stimolo all’economia e alla domanda interna (il che è un effetto, non può essere la causa). Difficile poi prendere sul serio un’iniziativa di riforma e di mantenimento dei diritti acquisiti quando dal 1996 in poi – governi Prodi di centrosinistra, Monti, Letta, Renzi e Draghi in coalizioni con le dirette controparti politiche e senza mai prevalere nettamente alle elezioni – la sfida di trasformazione e solidarietà si è tradotta con alleggerimento dei contratti nazionali di lavoro, scomposizione delle tipologie di contratto, moltiplicazione dei regimi pensionistici più gravosi per i lavoratori. E con una visione della globalizzazione che ha prodotto, certo, movimento di ricchezze, ma agendo determinantemente su due leve che nessuna sinistra avrebbe mai dovuto accettare: la bolla speculativa del primato dell’economia finanziaria (credito contro reddito) e il taglio al costo del lavoro per produrre di più contro mercati che il costo del lavoro non lo avevano mai considerato. 

L’attacco al reddito di cittadinanza è parte di una mentalità, per cui contano i diritti già assunti solo se sono i propri e ogni forma di garanzia è un vantaggio che altri hanno e i meno garantiti no: una mentalità largamente trasversale. Rispetto alle sfide del lavoro un minimo salariale universale dovrebbe essere trattato come un’unghia sul corpo di un gigante. Abbiamo il tema del lavoro cognitivo che accomuna in una perdita di risorse materiali singoli e famiglie in una fascia d’età tra i quarantacinque e i vent’anni; abbiamo una forza lavoro “irregolare” che è destinata ad aumentare per i conflitti bellici e il surriscaldamento climatico; abbiamo una crescente stagionalità come programma di lavoro in ambiti disparatissimi (dall’agricoltura all’intrattenimento, dal turismo all’edilizia). E una norma magica per dare a tutti almeno dieci euro all’ora non sarebbe la salvezza in terra. Se non ben scritta e attuata, per le nuove assunzioni, su questa mentalità economico-padronale il minimo diventerebbe lo standard formale e chissà quante porcate sotto la coperta della legalità contrattuale. Ormai i contratti collettivi, sempre più deboli e arretrati, per quanto argini fondamentali a un’ulteriore svalutazione del lavoro, “catturano”quote decrescenti di lavoro vivo, proteggono sempre di meno le persone occupate. Cresce, inoltre, un atteggiamento di rifiuto dello studio, del lavoro e della formazione: problema socio-psicologico nuovo, ma fino a un certo punto. Come non è davvero vecchio, e anzi in progressiva trasformazione e aggravamento, il tema delle morti sul lavoro nei settori produttivi. Nonostante l’enorme progresso tecnico, infatti, macchinario e ambiente di lavoro e contratto e rapporto sostanziale e mansione sono sempre più divisi, lasciando le lavoratrici e i lavoratori come isole ai venti. 
Non impostiamo la contestazione alla manovra di bilancio e all’eliminazione del reddito a una questione di ritirata strategica: imperativo è additare a trecentosessanta gradi tutti gli spostamenti che stanno facendo crollare il castello di carte sulla schiena di chi soffre. 

 

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