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Quel palazzo davanti Via D’Amelio e la relazione scomparsa. Intervista a Nicola Biondo

Nicola Biondo, il giornalista che con le sue inchieste ha dato una svolta alle indagini su Via D’Amelio, racconta ad AgoraVox i depistaggi e le trattative che sono seguiti all’attentato che uccise Borsellino. E sullo scandalo Mancino-Napolitano dice: «La condotta del Quirinale è un abominio. I politici temono la verità sulle stragi.» 

C’è un palazzo, davanti Via D’Amelio, da cui si vede bene il portone cui citofonò Paolo Borsellino pochi istanti prima di saltare in aria. Il giorno dopo la strage, il 20 luglio di venti anni fa, due agenti salirono sull’edificio per fare dei sopralluoghi. L’esplosione non aveva nemmeno sfiorato la struttura. I due uomini ci trovarono un vetro blindato e dei mozziconi di sigaretta consumati da poco. Ma Arnaldo La Barbera – allora a capo delle indagini, oggi indagato per averle depistate – ignorò quegli indizi e quella traccia. E la relazione di servizio redatta dai due agenti sparì per diciotto anni

Questa storia l’ha scoperta un giornalista, Nicola Biondo, uno dei migliori giovani talenti investigativi del giornalismo italiano, che l’ha pubblicata in un libro, Il Patto, edito da Chiarelettere, e poi in un articolo sull’Unità. Oggi la ricostruzione di Biondo è diventata la pista investigativa ufficiale della Procura di Caltanissetta, che ha riaperto le indagini sulla strage di Via D’Amelio e che con le sue verifiche ha confermato in via ufficiale il ruolo centrale di quel palazzo nella strage, e il depistaggio commesso dal gruppo di La Barbera. «Io in quel caso mi sono comportato da cittadino – racconta Biondo ad AgoraVox – più che da giornalista. Avevo conosciuto due poliziotti di Catania che avevano arrestato diversi mafiosi catanesi sulla base delle segnalazioni di Luigi Ilardo», il confidente dei carabinieri, protagonista del libro di Biondo, che avrebbe potuto fare arrestare Bernardo Provenzano nel 1995 e che è stato ucciso appena prima di diventare ufficialmente un pentito.

«Furono loro, quei due uomini, i primi a entrare in quel palazzo il giorno dopo la strage di Via D’Amelio, e mi hanno raccontato tutta la storia. Io non ne ho scritto subito, ho prima riferito tutto ai magistrati di Caltanissetta che mi hanno imposto il silenzio per un anno, e hanno continuato le indagini. È stata incredibile la negligenza degli investigatori dell’epoca nel trascurare questo palazzo. A escluderlo dal novero delle indagini era stato il gruppo La Barbera, lo stesso che oggi è sotto inchiesta per la falsa pista di Scarantino, (il falso pentito che ha depistato tutte le indagini su Via D’Amelio, autoaccusandosi, da innocente, della strage, ndr).»
 
Perché credi che quel palazzo abbia avuto un ruolo così importante nell’esecuzione della strage? Che cosa hai scoperto?

«Il depistaggio su Via D’Amelio inizia subito dopo l’esplosione della bomba. E dentro il depistaggio c’è anche la storia di questo palazzo. Tra i nuovi indagati per la strage c’è un signore che fa parte di Cosa nostra che abitava nello stabile della mamma del giudice Borsellino e che secondo le nuove indagini avrebbe avuto un ruolo quantomeno di vedetta in quel palazzo: per la strage era strategico per diversi motivi. Primo: era disabitato. Secondo: ha una visuale diretta e vicina al teatro della strage. Terzo: perché era un palazzo in costruzione e i costruttori sono legati a Cosa nostra. Quattro: perché l’edificio era frequentato, secondo le indagini fatte poco prima della strage, dai vertici della famiglia Madonia, oggi indagati per Via D’Amelio (mi riferisco a Salvuccio Madonia). Cinque: i costruttori di questo palazzo erano in contatto con Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, oggi in carcere, a cui in un’occasione avevano già fornito le chiavi di un appartamento. L’insieme di queste cose fa ritenere che questa pista investigativa è stata colpevolmente trascurata. Anzi, La Barbera ha fatto di peggio: poche ore dopo la strage, alle agenzie di stampa ha affermato che gli attentatori non avrebbero mai potuto piazzarsi su quel palazzo perché era stato seriamente danneggiato. E questa è una bugia: le foto e i video realizzati dopo la strage mostrano che quel palazzo rimane intonso, l’esplosione non lo sfiora.»

Sull’agenda rossa che Borsellino portava sempre con sé in cui annotava i dettagli delle sue indagini sparita appena dopo l’esplosione in Via D’Amelio che idea ti sei fatto?

«Penso che Giovanni Arcangioli, il carabiniere che è stato fotografato con la borsa del giudice in mano e che è stato indagato e prosciolto dall’accusa di avere favorito Cosa nostra con il furto di quella borsa che conteneva l’agenda, sia stato un capro espiatorio. La stessa difesa di Arcangioli ha fatto intendere che sul luogo della strage si trovavano altre personalità istituzionali che non avrebbero dovuto trovarsi lì. Purtroppo l’inchiesta sull’agenda rossa è finita in un nulla di fatto, ma ora la scomparsa di quel diario è uno dei filoni dell’indagine di Caltanissetta su Via D’Amelio.»

Antonio Ingroia ha detto che siamo nell’anticamera della verità. Secondo te le nuove indagini delle procure di Caltanissetta e Palermo potranno riuscire ad arrivare davvero alla verità su quella stagione?

«Una volta Stefano Rodotà ha scritto che c’è una violenza della verità che la democrazia ha sempre cercato di addomesticare per evitare che travolga le stesse libertà democratiche. Io penso che mai come per le stragi del ’92-’93, se noi sapessimo l’intera verità, tutta l’impalcatura istituzionale italiana cadrebbe. La violenza di questa verità si abbatterebbe trasversalmente come uno tsunami sulle classi dirigenti di ogni colore politico degli ultimi quarant’anni. La verità sulle stragi è una verità assolutamente pesante. In alcuni casi sono gli stessi magistrati a rendersi conto che esistono delle verità indicibili. Nelle inchieste ci sono passaggi che raccontano come, mentre una parte della magistratura italiana pagava un tributo di sangue straordinario, un’altra parte sia stata timida, intimidita, corrotta e priva di freni.»

A proposito della trattativa che idea ti sei fatto? Come pensi che siano andate le cose?

«Come ha detto anche il procuratore Messineo, non è stata la ragione di Stato il motore della trattativa, ma la ragione di pochi, di quei pochi politici che dovevano salvarsi dalla condanna a morte di Cosa nostra e di quelli che volevano cavalcare il nuovo ciclo politico che stava per avviarsi. Le sentenze definitive sulle stragi dicono che proprio quei contatti dei Ros con Ciancimino convinsero Cosa nostra a proseguire nella sua campagna stragista. Quelle persone, quei carabinieri hanno almeno una responsabilità morale nell’avere colloquiato con uno dei portavoce della Cupola. Stiamo parlando di morti ammazzati, di magistrati, di inermi magistrati, di cittadini, di una neonata a Firenze.»

Quindi, secondo te, quella dei Ros non è stata solo un’attività d’intelligence poco ortodossa. Pensi che la loro “attività diplomatica” con Vito Ciancimino, referente dei corleonesi, abbia avuto dei mandanti istituzionali?

«Che gli ufficiali Mori e De Donno vadano da Ciancimino di loro spontanea volontà è un’idiozia, questo è evidente. Uno era capitano e l’altro colonnello, non potevano avere la libertà di fare da soli una cosa così importante. E sono gli stessi ufficiali che hanno arrestato Riina con un’operazione eccezionale dal punto di vista operativo, ma i cui contorni non sono mai stati chiariti, dimenticandosi di perquisire il covo. La sentenza che assolve l’allora generale Mori e quell’altro signore di cui non voglio neanche fare il nome (il tenente colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio, ndr) dice che quell’operazione è costellata di episodi non chiari e mai spiegati. Parliamo dello stesso Mori che oggi è sotto processo perché nel 1995, pur sapendo dov’era nascosto Provenzano, non lo ha arrestato.»
 
Tutto questo cos’ha comportato per Paolo Borsellino?

«Paolo Borsellino non solo sapeva di questi incontri, ma gli furono anche chiariti i termini della trattativa. E Borsellino non poteva ammettere che uno dei prezzi da pagare a Cosa nostra per far cessare le stragi e permettere di decapitarne l’ala sanguinaria, quella dei corleonesi di Riina, dovesse essere un lasciapassare per Bernardo Provenzano. Quello il dottore Borsellino non lo avrebbe mai potuto ammettere, e non l’ha ammesso.»


Come valuti lo scandalo che ha coinvolto il Presidente della Repubblica Napolitano che, su richiesta dell’amico nonché ex ministro della Giustizia Nicola Mancino, indagato per la trattativa, ha provato a usare la sua autorità sul pg della Cassazione e sul capo della Direzione Nazionale Antimafia per intervenire sul corso delle indagini?

«Di là dall’amicizia personale o meno che può intercorrere tra un ex ministro degli interni e il Presidente della Repubblica, il problema è che il consigliere giuridico del Quirinale dice a Mancino, indagato, di accordarsi con un testimone dell’inchiesta che lo vede indagato per chiudere il cerchio e non contraddirsi a vicenda. Allora D’Ambrosio, questo consigliere giuridico consiglia una cosa assurda a un indagato. In più dice all’indagato che il Presidente Napolitano sa tutto. Già questo basterebbe non per farsi domande, ma per chiedere, anzi pretendere chiarimenti. Mancino e D’Ambrosio dicono una cosa che non sta né in cielo né in terra. Parlano di coordinamento tra le inchieste, e questo ci può stare. Però in una delle telefonate dicono una cosa gravissima, cioè che, poiché i magistrati di Caltanissetta, a differenza di quelli di Palermo, non hanno attribuito un rilievo penale alla trattativa, bisogna uniformare, “rendere omogenee” le linee investigative. Questo è un abominio! Non lo può fare nessuno! Non lo può fare né il pg della Cassazione né il capo della Dna, Grasso, cui loro si rivolgono. E men che meno lo può fare il Presidente della Repubblica. Verrebbe da dire che il Quirinale dovrebbe attivare un numero verde per gli indagati di lusso di questo Paese, perché il consigliere giuridico del Quirinale è evidentemente un consulente di alcuni indagati.»

Trovi giustificabile il conflitto di attribuzioni che il Presidente della Repubblica ha sollevato alla Corte Costituzionale per vedere distrutte le sue telefonate senza passare dal vaglio di un giudice?

«Chi dice che gli investigatori avrebbero dovuto staccare queste telefonate dalle indagini per distruggerle subito, prima di farle passare al vaglio di un Gip, o è un idiota o è in malafede. Possiamo fare i nomi, se vuoi, di tutti questi raffinati soloni della giurisprudenza costituzionale.»

Fermo, non finiremmo la lista nemmeno per domani mattina.

«E questo è indice di quanto queste persone non abbiano capito cosa significa la giurisprudenza di questo paese e piegano le loro terga ogni volta che conviene loro piegarle. Per non parlare di illustrissimi giornalisti che su questa vicenda non hanno neanche inarcato il sopracciglio. È stranoto che le intercettazioni possono essere distrutte, per garanzia del privato cittadino sottoposto a indagine, solo davanti a un Giudice per le Indagini Preliminari che chiama le parti, in questo caso Mancino e l’Avvocato dello Stato nel caso la Presidenza del Consiglio voglia farsi rappresentare in giudizio.»

Ieri è ripreso a Palermo il secondo appello del processo Dell’Utri. Tu nel 2010 avevi previsto su AgoraVox che il processo Dell’Utri sarebbe stato rinviato in Appello, e in parte è stato così, ma la Corte ha confermato in via definitiva l’assoluzione di Dell’Utri per le accuse successive al 1992, cioè quelle politicamente più scottanti, rinviando in appello il resto del processo. Affermando una verità giudiziaria definitiva: non c’è mai stato nessun patto criminale tra Forza Italia e Cosa nostra mediato da Dell’Utri.

«Premesso che, come si è visto, anche se in parte ci ho preso, non sono bravo a fare previsioni, quella sentenza emessa dalla Corte d’Appello in cui si diceva che Dell’Utri aveva avuto rapporti con Cosa nostra solo fino al 1992 è stata scritta apposta per essere poi cassata nel terzo grado di giudizio.»

Questo lo avevamo sospettato in molti, eppure l’assoluzione per i fatti successivi al ’92, quelli della cosiddetta “stagione politica”, è proprio la parte della sentenza che la Cassazione ha confermato in via definitiva. Dobbiamo accettare questa verità giudiziaria?

«Io non penso che le sentenze si debbano rispettare sempre e comunque: si può discutere di tutto e contestare nell’ambito della ragionevolezza qualsiasi cosa. La mole di prove che è stata raccolta sui rapporti di Dell’Utri con esponenti di vertice di Cosa nostra è tale che farebbe impallidire qualsiasi cittadino del mondo che non vive in Italia. La sentenza di appello conteneva una contraddizione incomprensibile: come può un manager di successo come Dell’Utri interrompere i rapporti con Cosa nostra proprio nel momento in cui acquisisce una posizione di potere e può essere più utile all’organizzazione? A me lasciano perplesse molte parti sia della sentenza di Appello sia di quella della Cassazione che ha rimandato indietro il processo.»

Qual è l’eredità della trattativa a distanza di vent’anni?

«Dobbiamo ancora risolvere molti nodi di quella trattativa, per cui è molto difficile capire quali sono i frutti. Di sicuro, dopo vent’anni, sappiamo di non sapere. Non conosciamo la strategia con cui è partita la stagione stragista né i nomi di tutti gli attori che hanno partecipato alla trattativa. Sappiamo di non sapere diverse cose sulla strage di Capaci, anche in termini di dati tecnici, e sappiamo di non saperne molte di più su quella di Via D’Amelio. Tra le cose che sappiamo con certezza c’è che la buona parte della classe dirigente di questo paese non ci ha raccontato tutto. Le sentenze definitive, anche se divergono tra loro in alcune parti, dicono sostanzialmente la stessa cosa: che la trattativa ci fu. Il punto è capire cosa, da questa trattativa, ha ottenuto Cosa nostra.»


DOSSIER: Via d’Amelio vent’anni dopo tra depistaggi e trattative

LEGGI ANCHE: Via D'Amelio, chi ruba le inchieste di Sergio Nazzaro



Lettura consigliata: Nicola Biondo, Sigfrido Ranucci, Il Patto, prefazione di Marco Travaglio, Chiarelettere, 2010

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