• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Cronaca > Antologia della trattiva

Antologia della trattiva

Ecco cosa è stato storicamente accertato nelle sentenze definitive sulle stragi.

Da quando Ciancimino figlio ha annunciato di avere il “papello” e di volerlo consegnare ai magistrati insieme alla lettera integrale di Provenzano a Berlusconi e a tutti i documenti dell’archivio segreto di “Don Vito”, da quando anche Totò Riina si è messo a parlare per non parlare, è iniziata una ridicola diatriba sulla trattativa: c’è stata? Non c’è stata? E il papello? Possibile che non sia mai stato trovato? E Ciancimino c’entra qualcosa? Se stesse solo millantando?

Per fortuna esistono delle verità storiche, assodate in sentenze passate in giudicato, sulle quali possiamo ancorarci per fare altre domande. Ma consapevoli che certi fatti sono veri e sono stati storicamente accertati. Esiste un ruolo indiretto e inconsapevole di Berlusconi e Dell’Utri nella strage di via d’Amelio, esiste la trattativa, che si è disputata tra Cosa nostra e due esponenti dell’Arma dei Carabinieri (il generale Mori e il capitano De Donno) per il tramite di Vito Ciancimino, ed esiste il papello di cui conosciamo persino alcuni dettagli (“Nel papello il Calò era personalmente citato, con riguardo al migliore trattamento dei detenuti”, Cassazione Borsellino ter, p.13).

Pubblichiamo, di seguito, uno stralcio della sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta, confermata dalla Corte di Cassazione (sentenza n. 948/2003), del processo Borsellino bis sulla strage di via d’Amelio:

 
"La seconda “anomalia” o “ patologia” che spiega l’anticipazione della strage attiene alla vicenda della “trattativa” con Cosa Nostra […] Nel giro di pochi giorni dall’avvio della trattativa Borsellino viene massacrato [...]

La trattativa ebbe inizio nel giugno del 1992 e ebbe per protagonisti inizialmente il capitano De Donno e Vito Ciancimino. Il Mori ha dichiarato di essere stato scettico sull’iniziativa, ma aveva ritenuto di assecondare il suo subordinato per lo stato di impotenza provata al momento della strage di Capaci. I rapporti con Ciancimino vennero gestiti successivamente dal capitano Mori […]

E’ certo […] che fissato il contatto e stabilito che i carabinieri avevano avvicinato il Ciancimino subito dopo la strage di Capaci per prendere contatti con Cosa nostra […], la comunicazione di Riina a Brusca (“si sono fatti sotto”) era assolutamente giustificata dal modo in cui quel contatto si era realizzato, rafforzandosi così la convinzione di Riina di poter portare lo Stato a trattare e a fare concessioni a suon di stragi, avendo dimostrato quel primo contatto ai mafiosi che dall’altra parte si brancolava nel buio e si era disponibili ad un “dialogo” o ad una “trattativa”, nella quale far rientrare quei famosi punti del “papello”, la cui esistenza non può essere negata per il solo fatto che la negano i due ufficiali. E’ assolutamente logico pensare che Ciancimino, quando chiese di sapere cosa avessero da offrire gli interlocutori e quando capì che non avevano da offrire in concreto alcunché, abbia capito che non era il caso di presentare le richieste di Cosa Nostra. Ovvero è ben possibile che l’ambasciatore di Riina, Cinà [Gaetano Cinà, già intimo amico e coimputato di Marcello Dell'Utri, ndr] abbia atteso, prima di autorizzare la presentazione delle richieste dell’organizzazione, di sapere quale fosse il grado di disponibilità ad accoglierle e il grado di rappresentatività dei carabinieri.

In tutti i casi, questa vicenda rappresenta un fattore che ha interferito con i processi decisionali della strage.

Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante.

Questo episodio, per altro verso, conferma che gli interlocutori di Ciancimino, e cioè il gruppo corleonese al vertice di Cosa nostra, giocava consapevolmente la carta delle stragi nella partita in corso per il ristabilimento delle condizioni di convivenza venute nel frattempo meno.

Ciò dimostra che Cosa nostra rivendicava la paternità delle stragi e si collocava nella trattativa come l’elemento forte che poteva addirittura pensare di imporre, con la minaccia della prosecuzione dell’attacco al cuore dello Stato, l’accoglimento delle misure indicate nel “papello” e che solo una capacità di ricatto portata al livello delle stragi compiute poteva giustificare, nella logica della trattativa alla quale la mafia pensava: le richieste erano correlate al danno che l’organizzazione aveva provocato e a quello che si riprometteva di produrre se le richieste non fossero state accolte".

 
Ma quali erano, di preciso, le richieste di Cosa nostra allo Stato contenute nel papello? Nel merito, la sentenza della Corte d’Appello di Firenze sulle stragi del 1993, anch’essa confermata dalla Cassazione, è molto chiara:

 
"Scopi specifici furono l’abrogazione della normativa penitenziaria contemplante l’isolamento carcerario dei mafiosi; la chiusura di alcune carceri “speciali” (Pianosa e l’Asinara); la sterilizzazione della normativa sui “collaboratori di giustizia”.


 
La Corte di Cassazione ha confermato nel merito anche la sentenza d’appello del processo sulla strage di Capaci, che si spinge oltre, palesando che Riina, tramite i R.O.S., era riuscito a far pervenire il papello a dei "referenti politici":

 
"La diacronia dei delitti, che avevano avuto inizio con l’uccisione dell’on. Lima, cui erano seguiti la strage di Capaci, quella di Via d’Amelio, nonché il fallito attentato a Maurizio Costanzo e gli attentati al patrimonio artistico nazionale, che avevano determinato anch’essi la morte di numerosi inermi cittadini, avevano costituito la concreta attuazione della strategia militare intrapresa da Cosa Nostra per raggiungere gli scopi che sul piano politico (“fare la guerra per poi fare la pace”) si riprometteva di conseguire e che potevano essere condensati nel cosiddetto “papello” che Totò Riina aveva fatto pervenire, tramite i canali attivati dal R.O.S., ai referenti politici che cercavano per tale via di porre rimedio alla strategia del terrore con cui i vertici della mafia siciliana cercavano di ricondurre i rappresentati delle istituzioni statuali ad un più mite, tollerante e edulcorato atteggiamento nei confronti della predetta organizzazione, anche a costo di mutare alleanze, orientandosi verso nuovi referenti in grado, a differenza dei primi, di intessere nuove intese e nuovi equilibri in grado di assicurare l’avvenire del sodalizio".

 
Molti pentiti hanno riconosciuto questi nuovi referenti politici in Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. La Corte, quindi, è entrata nel merito dei loro rapporti con Cosa nostra durante il periodo della trattativa:

 
"Non può sostenersi in questa sede […] che l’accelerazione impressa da Riina, la “premura”, alla strage di Via D’Amelio sia da ricondurre alle promesse da parte dei predetti di interventi futuri di cui Riina aveva accennato.

Non può infatti sottacersi che all’epoca delle stragi i cosiddetti personaggi importanti non rivestivano alcuna carica pubblica e che la formazione politica che poi avrebbero fondato non era ancora pronosticabile, al di là delle affermazioni rese da tal Cartotto, che afferiscono a notizie che molto difficilmente potevano fare parte del patrimonio conoscitivo del Riina. Nell’ottica di Cosa Nostra questo rapporto era sicuramente da coltivare, e ciò spiega il diretto interessamento di Riina e l’estromissione di Vittorio Mangano dal ruolo assegnatogli. Tuttavia non è dato sapere […] in concreto quali attività agevolative dell’associazione mafiosa i predetti personaggi importanti avrebbero dovuto e/o potuto apprestare nell’immediato, laddove si ponga mente anche al fatto che erano in corso trattative con canali istituzionali che si erano condensate nell’arcinoto “papello”, che era una sorta di che costituiva per Riina la base per una seria trattativa con lo Stato. All’epoca dei fatti, tale trattativa non poteva di certo impegnare seriamente né Dell’Utri, né Berlusconi, e ciò a prescindere dai notori rapporti avuti con Vittorio Mangano".

 
Ma la sentenza “Borsellino bis”, redatta due anni dopo, ribalta queste conclusioni. Nell’elencare i motivi che hanno portato all’accelerazione della strage di via d’Amelio i giudici ricordano che Paolo Borsellino, nella sua ormai famosa “ultima intervista” a Chiara Beria di Argentine e Gabriele Invernizzi (“Ad Arcore c’era uno stalliere”) parla dei rapporti fra Berlusconi, Dell’Utri e Vittorio Mangano:

 
"Questa Corte ritiene […] che il Riina possa aver tenuto presente nel decidere la strage gli interessi di persone che intendeva “garantire per ora e per il futuro”, senza per questo eseguire un loro ordine o prendere formali accordi o intese o dover mantenere promesse.

Alla fine di Maggio del 1992, dopo la strage di Capaci, Cosa nostra era in condizione di sapere che Paolo Borsellino aveva rilasciato una clamorosa intervista televisiva a dei giornalisti stranieri, nella quale faceva clamorose rivelazioni su possibili rapporti di Vittorio Mangano con Dell’Utri e Berlusconi, rapporti che avrebbero potuto nuocere fortemente sul piano dell’immagine, sul piano giudiziario e sul piano politico a quelle forze imprenditoriali e politiche alle quali fanno esplicito riferimento le dichiarazioni di Angelo Siino, sulle quali i capi di Cosa Nostra decisamente puntavano per ottenere quelle riforme amministrative e legislative che conducessero in ultima istanza ad un alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e alla revisione della condanna nel maxi processo. Con quell’intervista Borsellino mostrava di conoscere determinate vicende; mostrava soprattutto di non avere alcuna ritrosia a parlare dei rapporti tra mafia e grande imprenditoria del nord, a considerare normale che le indagini dovessero volgere in quella direzione; non manifestava alcuna sudditanza psicologica, ma anzi una chiara propensione ad agire con gli strumenti dell’investigazione penale senza rispetto per alcun santuario e senza timore del livello al quale potessero attingere le sue indagini, confermando la tesi degli intervistatori che la mafia era non solo crimine organizzato, ma anche connessione e collegamenti con ambienti insospettabili dell’economia e della finanza. Riina aveva tutte le ragioni di essere preoccupato per quell’intervento che poteva rovesciare i suoi progetti di lungo periodo, ai quali stava lavorando dal momento in cui aveva chiesto a Mangano di mettersi da parte perché intendeva gestire personalmente i rapporti con il gruppo milanese. E’ questo il primo argomento che spiega la fretta, l’urgenza e l’apparente intempestività della strage. Agire prima che in base agli enunciati e ai propositi impliciti di quell’intervista potesse prodursi un qualche irreversibile intervento di tipo giudiziario".

 
Quando questi fatti sono stati storicamente accertati in sentenze passate in giudicato, ora che il bravo Gianluigi Nuzzi (dimostrazione vivente che può esistere un giornalista persino a Panorama) dà notizia della reale esistenza dell’archivio di Ciancimino, nessun Nicola Mancino, Claudio Martelli, Presidente della Repubblica, Riina o giornalista che sia, può fingere di dimenticarsene.

Devono, invece, a iniziare da questi fatti, fare (o farsi) delle domande. E, soprattutto, darci delle risposte.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares