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Pistoia - Uccide il proprio neonato per paura di perdere il lavoro ed essere espulsa

Da alcuni anni in tutt’Italia stanno aumentando in maniera esponenziale gli aborti clandestini: vi si rivolgono giovani donne extra- comunitarie spesso impaurite dalle nostre leggi sull’immigrazione

Pistoia - Uccide il proprio neonato per paura di perdere il lavoro ed essere espulsa

Se avesse partorito in Ucraina, Irina (il nome è di fantasia anche se la sua vera identità stamattina è stata rivelata da tutti i quotidiani toscani pur in presenza di un altro figlio minore della donna che porta il suo stesso cognome ma si sa, il diritto alla privacy vale solamente per gli italiani) stamattina si sarebbe risvegliata con il suo neonato di appena tre giorni accanto in una qualsiasi nursery di un qualsiasi ospedale dell’ex repubblica sovietica. Invece stamattina Irina si è risvegliata in una cella del reparto di isolamento femminile del carcere di Sollicciano a Firenze con un’accusa, mossagli dal Sostituto Procuratore di Pistoia Francesco Sottosanti, da far tremare le vene dei polsi: infanticidio aggravato, roba da ergastolo.
 
Tatiana è rea confessa. Nel pomeriggio di domenica scorsa aveva partorito in uno spogliatoio del bar dell’ovovia della stazione sciistica dell’Abetone ove lavorava stagionalmente, da dicembre ad aprile, insieme ad altri colleghi italiani, polacchi e romeni. Il fatto è però che italiani, polacchi e romeni sono cittadini comunitari e dunque nei loro confronti la legge è più accondiscendente mentre lei era un’extra- comunitaria e quella gravidanza proprio la terrorizzava in quanto per poter accudire il marmocchio molto probabilmente avrebbe perso il lavoro; d’estate presta la sua opera come “ femme de chambres” in un albergo della confinante Pievepelago, e dunque il diritto a permanere in Italia, secondo i principi della nostra legge sull’immigrazione, cioè la Bossi- Fini. Una volta tornata clandestina, poi, magari sarebbe stata fermata dalle forze dell’ordine e rinchiusa, in base al Decreto- Sicurezza del governo Berlusconi, in carcere. Le avrebbero tolto il bambino di otto anni che regolarmente frequenta le elementari a Fiumalbo un paese modenese non lontano dall’Abetone, già terra di Toscana.
 
Quel bambino, ora affidato ad una famiglia di Modena, ha sangue italiano nelle vene ma il padre naturale, un pizzaiolo calabrese, al fine di tenere nascosta alla sua famiglia d’origine la scappatella con l’amica ucraina ha preferito non riconoscerlo e dunque negargli il diritto ad essere italiano, relegandolo nel girone infernale degli extra- comunitari. Non poteva proprio permettersi un altro figlio, Irina, ed allora dopo aver partorito una bella creatura di tre chili l’ha soffocata con un fazzoletto e, poi, ha chiuso il cadaverino nella sua borsa. I Carabinieri allertati dai sanitari cui si era rivolta per curare la classica emorragia “post- partum” ci hanno messo poco a scoprire la verità. Irina era rimasta incinta di un operaio macedone nove mesi fa ma da tre mesi questi l’aveva lasciata forse perché aveva dovuto abbandonare il nostro paese o forse perché non era riuscito a distogliere l’amata dal suo brutto vizio di bere, vizio dovuto soprattutto alla disperazione che l’aveva colpita da quando, dieci anni fa, era venuta nel nostro paese alla ricerca di qualcuno che le riconoscesse la dignità di donna, una dignità che il marito ucraino, da cui era divorziata, sempre le aveva negato.
 
Irina non credeva di essere giunta al termine della gravidanza ma di essere solamente al quarto mese: perciò da giorni si imbottiva di farmaci, forse contraffatti,acquistati al mercato nero delle “extra comunitarie” disperate giù a Firenze: sudamericane, africane, albanesi ed ucraine come lei troppo terrorizzate dalle norme italiane in materia di immigrazione per recarsi in ospedale. Da anni ma con un drammatico picco dopo l’approvazione della norma sul reato di clandestinità, ci dicono le associazioni umanitarie della penisola, il numero degli aborti clandestini è decuplicato: sono tornate le mammane come all’inizio degli anni settanta. Sono anche esponenzialmente aumentati gli infanticidi ad opera di donne extra- comunitarie. Sono loro le invisibili, le nuove schiave dell’Italia del terzo millennio, a pagare innanzitutto le norme volute dalla società perbenista di una nazione che le vuole solamente se belle, giovani, procaci e disponibili; altrimenti non si cura dei loro destini anche se la loro opera come badanti, ed Irina prima di diventare barista badava proprio ad un’anziana deceduta due anni fa, è insostituibile sotto il profilo sociale.
 
Quella di Irina non è la storia di un mostro giunto dalla tanto stigmatizzata Europa dell’Est, non è la storia di un essere barbaro che con la tanto deprecata, ora con il senno di poi, caduta del muro di Berlino è potuta venire a cercare di raccogliere le briciole del nostro cieco egoismo: è invece semplicemente una brutta storia, tanto comune nell’Italia della fine del primo decennio del ventunesimo secolo, in un paese che in quanto a conquiste sociali sta paurosamente regredendo anche perché dominato dalla fobia nei confronti dello straniero.
 
 
Nella foto, il carcere di Sollicciano

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