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Palestina: uno stato che ci sarà (forse un po’)

Abu Mazen sembra deciso, alla fine, a sottoporre all’ONU la sua richiesta di riconoscere la Palestina come 194° Stato del globo. Dopo un certo numero di "gran rifiuti" sembra dunque giunto il momento fatidico della conta, anche se va ricordato che l'ANP già gode dello status di "osservatore" al Palazzo di vetro.

I rifiuti, è storia, furono espressi con sdegno un paio di volte sul finire degli anni ’30, contro i vari piani di divisione proposti dai britannici. Piani di divisione di quel 27% di Palestina rimasto dopo l’estrapolazione della Transgiordania (cioè l’altro 73% del territorio del mandato britannico in Medio Oriente che oggi è il regno di Giordania, un paese in pace - almeno fino ad ora - con Israele, ma anche un paese dove nessun ebreo, per legge, può diventarne cittadino).

Un altro rifiuto, ancora più vistoso fu opposto al piano di spartizione che l’ONU aveva preparato, e poi approvato con la Risoluzione 181, pianificando di riservare il 56% del territorio all’etnia ebraica, in vista dell’accoglimento di centinaia di migliaia di sopravissuti ancora in attesa di una via d’uscita alla loro condizione di profughi (e molti avevano passato mesi e mesi nei campi di accoglienza inglesi prima di poter emigrare).

Ancora peggiore per le conseguenze nefaste che sono da anni al centro dell’attenzione mondiale, fu il rifiuto opposto alla proposta di pacificazione israeliana – "pace contro terra" – finalizzata a restituire ai palestinesi i territori persi da Giordania, Siria ed Egitto dopo il double dip delle guerre perdute nel ’67 e ’73.

Agli orgogliosi ‘rifiuti’, comprensibili fino a che gli arabi, palestinesi e non, erano convinti di poter soffocare sul nascere lo stato ebraico e ributtare a mare gli ebrei, si è aggiunta l’incomprensibile ottusità di non pianificare una qualsiasi forma di "stato palestinese" nella West Bank e a Gaza nei lunghi vent’anni intercorsi tra il ’48 ed il ’67; venti anni in cui gli egiziani hanno occupato Gaza e i giordani la Cisgiordania, compresa la città vecchia di Gerusalemme, senza sapere bene che farsene, ma usando sempre il problema palestinese (rifugiati compresi) come spauracchio per il nemico sionista.

Alla fine, dopo altri infruttuosi venti anni da quel fatidico giorno del 1993 quando ad Oslo sembrava che tutto fosse finalmente in via di risoluzione, ora si arriva alla richiesta che Abu Mazen presenterà all’ONU, con speranza pari a quasi il centopercento di vedersela accolta dall’Assemblea Generale e pari a zero di farla passare al Consiglio di Sicurezza dove gli Stati Uniti opporranno il veto.

Il tentativo di Abu Mazen sembra sanare un’ingiustizia storica (in qualche misura autoinflitta, senza negare nulla delle violenze subìte) con un atto dignitoso, l’orgogliosa affermazione di un’identità nazionale comprensibile e condivisibile dopo i numerosi errori del passato, che contiene però molti, molti elementi contradditori.

 Il primo punto è che non si arriva al riconoscimento dello Stato di Palestina attraverso una trattativa con l’altro stato lì presente, quello israeliano. Dove governa Netanyahu, si sa, con la sua compagine di arroganti cialtroni dell’estrema destra nazionalista e ultrareligiosa, ma con cui si deve trattare, piaccia o non piaccia.


 A questo proposito pare che i Palestine papers, quei documenti riservati messi in circolazione da Al-Jazeera e dal Guardian, dimostrino una disponibilità reale di Abu Mazen alla trattativa e questo metterebbe sotto scacco il governo israeliano imputandogli l’intera responsabilità dello stallo attuale, ma anche questa ipotesi non è del tutto credibile se, anche questa settimana, sono emerse tutte le difficoltà di conciliare le posizioni della ANP e di Hamas.


Inoltre i passati sei mesi di moratoria delle nuove edificazioni nei territori che il governo di Gerusalemme aveva concordato sono stati lasciati scadere dai palestinesi che subito dopo hanno cominciato di nuovo a lamentarsi per i nuovi insediamenti - veri o presunti - approvati o in costruzione: ma non potevano fare dei passi durante quei sei mesi e non solo dopo? Forse dentro casa Palestina i giochi non sono per niente fatti.

Il secondo punto è che gli Stati Uniti, inferociti per i ripetuti sgarbi israeliani, adesso saranno inferociti anche con i palestinesi, rei di averli costretti a porre un veto che avrebbero probabilmente voluto evitare per tenere un po’ sulla corda l’antipatico Netanyahu, il quale ora potrà uscirsene con un nuovo sorrisetto beffardo. E rei anche di aver fatto perdere la faccia, e in modo che appare plateale, al presidente Obama davanti a tutto il mondo arabo, dopo le grandi promesse di poco tempo fa. Non ne sarà contento, a meno che, naturalmente, non decida per il voto a favore dello stato palestinese rompendo definitivamente con Israele, i suoi elettori ebrei tradizionalmente democratici, con i finanziatori e le lobby ebraiche e così via. Giocandosi quindi le ultime, scarse possibilità di rielezione. Vi sembra realistico?

E poi c’è un ulteriore terzo punto, forse il principale: fate in modo che l’ONU approvi lo stato palestinese sui "confini del ‘67" (che nessuno sa esattamente quali siano) e, all’istante, qualsiasi ipotesi di ritorno dei profughi del '48 sarà definitivamente evaporata, sparita per sempre (lo è già, ma Hamas ancora non lo sa e comunque non vuole nemmeno sentirne parlare).


È un punto centrale per lo sviluppo dei rapporti interpalestinesi: o vince un radicale rifiuto di accettare la creazione dello stato palestinese, per non perdere la richiesta di ritorno dei profughi, e allora sarà Abu Mazen a dover gettare la spugna, svergognato dal suo stesso popolo proprio nel momento di massimo riconoscimento internazionale, oppure Hamas si dichiara sconfitta (pur mascherandosi dietro lo sbandieramento di una proclamata vittoria, come ha sempre fatto) e rinuncia per sempre ad uno dei suoi punti fermi e "irrinunciabili". Diventando così lo zimbello di tutti i duri e puri dello schieramento islamista.

Insomma, sembra che la manovra diplomatica palestinese abbia messo nell’angolo i presuntuosi israeliani, ma non sarà invece che nell’angolo ci sono finiti per l’ennesima volta proprio i governanti di quell’isola che non c’è chiamata Palestina?

Ma siamo in Medio Oriente, tutto è come tutto non è. La taqiyya, il dissimulamento è prassi quotidiana in cui tutti sono maestri. Lo Stato di Palestina sarà riconosciuto (un po’), i confini saranno (un po’) quelli del ’67, le bandiere sventoleranno e Abu Mazen sarà (un po’) l’eroe e (un po’) il traditore, proprio come adesso e, come adesso, Hamas sarà (un po’) inflessibile e (un po’) ragionevole. Israele sorriderà sotto i baffi e alla fine poco e nulla sarà cambiato. Fino al prossimo giro, con alla guida Mr. Erdogan.

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