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Palestina e la scomoda sedia al palazzo di vetro

Ogni giornale parla dello storico voto sulla risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU di accettare la Palestina come stato osservatore non membro dell’organizzazione.

Ed è effettivamente un voto storico perché evidenzia la volontà della maggior parte degli Stati membri di considerare la Palestina uno Stato a tutti gli effetti, decisione conseguente alla logica dei “due popoli, due Stati” che molti, ma non tutti, considerano l’unica soluzione sensata all’interminabile conflitto israelo-palestinese. Non una novità assoluta perché si sa che l'OLP, poi rinominato "Palestina", aveva già lo status di osservatore senza diritto di voto all'ONU già dal 1974, poi esteso nel '98 ai dibattiti dell'Assemblea Generale, sempre senza diritto di voto.

Anche chi si è espresso contro l'ammissione di oggi, non si dichiara a priori contrario alla logica dei due Stati, ma piuttosto alla prassi seguita dal leader dell’ANP, Abu Mazen, di perseguire unilateralmente il voto bypassando la trattativa. La stessa decisione unilaterale degli israeliani di ritirarsi da Gaza senza trattare fu astiosamente criticata; oggi si rende pan per focaccia.

Inutile polemizzare su chi ha di fatto bloccato la trattativa stessa; ci troveremmo di fronte al muro delle interpretazioni contrapposte e inconciliabili. La colpa è di Israele che non ha mai accettato di bloccare l’espansione delle colonie, prerequisito tassativo per la prosecuzione della trattativa (versione palestinese); la colpa è dell’ANP che non ha mai accettato di dialogare durante i dieci mesi di sospensione delle costruzioni negli insediamenti ebraici della West Bank accordati per rendere possibili le trattative (versione israeliana).

Punto e accapo. Oggi la Palestina - che non è uno Stato indipendente riconosciuto internazionalmente - viene accettato come Stato osservatore-non-membro; il che è un mistero dal punto di vista del diritto internazionale, ma l’ONU ci ha abituato a decisioni contraddittorie in precario equilibrio semantico, come nel caso della richiesta a Israele di liberare “i” territori - o semplicemente “territori” - occupati dopo la guerra del ’67, che si giocava sull’equivoco della diversa traduzione inglese e francese della risoluzione.

Questa voluta ambiguità determinata dal braccio di ferro tra chi sottolineava la responsabilità dei paesi arabi nel conflitto e chi cercava di arginare l’espansione israeliana in seguito alla vittoria militare, pose le basi per la diversa interpretazione israeliana (liberare “territori” significa sgombrare qualche zona precedentemente occupata) e palestinese (liberare “i territori” significa ritirarsi da “tutta” la zona occupata durante la guerra).

E su queste due inconciliabili chiavi di lettura si è incardinata tutta la irrisolta questione dei Territori (“occupati” secondo i palestinesi e “contesi” secondo la versione israeliana).

Difficile uscirne, come dimostrano i 45 anni successivi di ininterrotti contrasti.

Nell’ultimo mese la questione palestinese, oscurata da più di un anno dalle ‘primavere arabe’, dalla tensione crescente sul nucleare iraniano e dalla guerra civile in Siria, è balzata di nuovo al centro dell'attenzione mondiale. Prima con lo scontro militare Hamas-Israele e ora con l’intifada diplomatica di Abu Mazen.

Entrambi gli schieramenti palestinesi, storicamente ai ferri (molto) corti, hanno avuto il merito di riesumare il problema, riportandolo in vita da quello stato comatoso e asfittico in cui era finito per i continui niet contrapposti.

Se è indiscutibile la responsabilità del governo Netanyahu nel tentativo di soffocare la trattativa, è altrettanto comprensibile che la gente di Israele pensi che se l’esercito si ritira dalla Cisgiordania migliaia di razzi cadrebbero sulle maggiori città israeliane che distano non più di venti-trenta chilometri dal territorio palestinese. È il lascito drammatico della prassi militarista di Hamas, che non è quindi meno responsabile dei falchi dello stato ebraico.

La richiesta di Abu Mazen propone quindi al mondo l’esistenza di “una” Palestina, ma si sa bene tutti - amici e nemici - che le Palestine sono “due” e ben diverse fra loro, anche se il leader di Ramallah ha incassato una provvisoria adesione dell’organizzazione islamista alla sua iniziativa in sede ONU.

Nei fatti tutte le bandiere sventolavano (metaforicamente se non fisicamente) in un tripudio di gioia facilmente comprensibile; ma nessuno si illude che la ritrovata ‘fratellanza’ palestinese sia reale e assodata. Semplicemente oggi si nasconde sotto il tappeto il conflitto irrisolto tra l’ala laica e pragmatica e quella della ‘fratellanza’ islamica, oltranzista e intransigente.

Lo stesso conflitto che abbiamo visto negli ultimi giorni nelle piazze del Cairo, dove un colpo di stato messo in atto dal neo-presidente egiziano ha scatenato la rivolta di chi non ha alcuna intenzione di passare dalla dittatura di Mubarak a quella dell’islamismo radicale.

Che succederà se (come sembra probabile) Hamas vincerà le elezioni e si troverà quindi nel diritto di accedere al seggio palestinese all’ONU? Quanti di quegli Stati - in particolare europei - che oggi hanno votato a favore si troveranno in serio imbarazzo quando la Palestina mostrerà la sua faccia più radicale che loro stessi hanno definito "terrorista"? Come accoglieranno l'esponente di un movimento politico che nel suo statuto non ha mai scritto nemmeno una parola sul futuro "stato palestinese", ma ne ha scritte più d'una sull'intento di "porre il nemico sionista nel nulla"?

Oggi Israele è finito nell’angolo, si direbbe, spinto dalla doppia iniziativa armata da Gaza e diplomatica da Ramallah. Come dire che vince ogni battaglia, ma recentemente perde piuttosto spesso le guerre. Ovvia conclusione di chi confida un po’ troppo nella soluzione armata e troppo poco in quella politica.

Il gioco delle accuse e controaccuse si è immediatamente aperto nella società israeliana come dimostrano i titoli cubitali sulla “umiliante sconfitta” che lo stato ebraico ha subìto in questo mese di novembre. E lo stesso scontro travaglia la comunità ebraica della diaspora, dove i fan duri e puri del governo di Gerusalemme prevedono tempi cupi e la fine di ogni possibile trattativa, mentre la sinistra rinfaccia duramente l’appoggio acritico regalato all’ipernazionalismo di Netanyahu, salutando con fervore la “nascita” dello stato palestinese e prefigurando un futuro finalmente di pace.

Nonostante le farneticazioni di chi continuamente paragona le modalità di reazione israeliane a quelle naziste, quello a cui abbiamo assistito oggi assomiglia molto invece a quello che accadde, proprio in quella terra contesa, nei primissimi anni del dopoguerra. Gli ebrei sfuggiti o sopravvissuti alla Shoah emigrarono in massa nella Palestina ancora sotto controllo inglese, triplicando il volume della comunità ebraica già presente. Fino a che la risoluzione 181 dell’ONU sancì la spartizione del territorio tra il nascituro Stato indipendente di Israele e quello che avrebbe dovuto essere lo stato arabo di Palestina.

Come andarono le cose lo sappiamo: la risoluzione ONU fu irrilevante anche se diede una copertura legale allo stato nascente, ma fu lo scontro sul terreno che gli diede effettivamente la possibilità di sopravvivere.

E fu uno stato di fatto sancito unilateralmente, non raggiunto attraverso una trattativa protratta fino ad una conclusione condivisa, che ha portato ad un conflitto ininterrotto.

Il rifiuto arabo di accettare la risoluzione ONU è stato la madre di tutte le grane successive, ma, come sapevano bene gli inglesi fino dagli anni trenta, nessuno avrebbe saputo gestire quella situazione e furono ben contenti di lavarsene le mani ammainando l’Union Jack e facendo le valigie con gioiosa frenesia.

La situazione che si è creata oggi sembra essere una paradossale ripetizione del passato a parti invertite: i palestinesi festeggiano e sparano fuochi d’artificio per la loro patria prossima a nascere (forse), così come nel ’48 gli ebrei festeggiarono e fecero festa per la patria finalmente trovata (e mai avuta prima). Poi a entrambi i popoli sono toccati settant’anni di sangue.

Se non è una banale ripetizione del passato, allora potrebbe essere una novità di tutto rispetto. Il diritto degli uni potrebbe finalmente rispecchiarsi nel diritto degli altri. Due popoli in due stati liberi, indipendenti, pacificati e addirittura in collaborazione fra loro (magari fra un po') per il miglioramento della vita di ognuno.

Ma mi sembra di aver descritto il mondo edulcorato di Heidi, la contadinella dei cartoon degli anni '80, non la realtà attuale del medioriente. La realtà al momento è che lo stato-non-stato di Palestina ha solo preso il posto del movimento-non-stato dell'OLP su una sedia un po' scomoda in quell'inutile palazzone di vetro che chiamiamo pomposamente Organizzazione delle Nazioni Unite.

Ma, sul terreno pietroso della West Bank o sulle sabbie di Gaza, la realtà sarà probabilmente ancora più dura, dopo che il leader palestinese ha tirato il suo secco ceffone non solo al permaloso (e vendicativo) Bibi Netanyahu, ma anche ad un Barack Obama che forse valeva la pena corteggiare ancora un po'.

Chiedersi chi c'è dietro a quel sonoro ceffone affibbiato da Abu Mazen, oltre all'entusiasta popolo palestinese, non è una domanda così oziosa come può sembrare: nuovi scenari, tutti da interpretare.

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