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P3. L’insostenibile silenzio di Dell’Utri

Interrogato dai pm di Roma sulla P3, ha scelto di non rispondere. Avvalendosi di una sua legittima facoltà processuale. Ma Marcello Dell’Utri non è un indagato comune. È un senatore della Repubblica. E come tale è tenuto a chiarire le ombre che lo circondano e a dare spiegazioni. Ai cittadini prima ancora che ai magistrati. A meno che non abbia qualcosa da nascondere.

L’altro ieri, interrogato dai pm romani nell’ambito dell’inchiesta sulla nuova P2, Marcello Dell’Utri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dopo il suo interrogatorio, durato meno di un’ora, Dell’Utri ha spiegato ai giornalisti di avere scelto di non rispondere alle domande dei magistrati perché «ormai sono un indagato provveduto. A Palermo 15 anni fa, quando ero un indagato sprovveduto, ho parlato 17 ore e sono stato rinviato a giudizio sulla base della mie dichiarazioni. Ho imparato da allora». L’esperienza insegna. E in effetti il senatore nel suo processo per concorso esterno si difese malissimo. Così pagine e pagine delle sue dichiarazioni vennero utilizzate contro di lui nel processo sia di primo grado sia di appello, come riscontro alle dichiarazioni di più di una trentina di collaboratori di giustizia (le motivazioni della sentenza di appello non sono ancora state depositate, ma nella requisitoria del pg le dichiarazioni di Dell’Utri vengono citate di continuo).

Non è la prima volta che Dell’Utri sceglie di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’ultima, lo scorso 9 ottobre, è stato al processo Hiram, il processo a una consorteria che serviva ad aggiustare in Cassazione i processi (anche a importanti boss mafiosi) di cui farebbero parte imprenditori e uomini dello stato insieme ad affiliati alla massoneria e alla criminalità organizzata siciliana. Marcello Dell’Utri avrebbe dovuto spiegare, in qualità di imputato di reato connesso, i suoi rapporti con Rodolfo Grancini, «coprotagonista – scrivono i pm – di tutti gli episodi delittuosi, vero e proprio trait d’union tra la Cassazione, gli ambienti massonici siciliani e alcuni esponenti di vertice dell’associazione Cosa Nostra». Grancini, ex presidente a Orvieto del Circolo del Buon Governo dello stesso Dell’Utri, già condannato in primo grado a sei anni e sei mesi per concorso esterno in associazione mafiosa, al telefono ha raccontato: «mi sono venuti a parlare dentro la Chiesa, due, un colonnello di Asti, uno di Prato, un altro del ministero di Giustizia, per parlare con lui, con Marcello». I giudici avrebbero voluto chiedere a Dell’Utri cosa sa di questa vicenda. Ma il senatore, che già un anno prima aveva fatto ricevere ai magistrati che lo volevano interrogare in procura una lettera in cui annunciava di non voler rispondere alle loro domande, ha deciso di non parlare.

Sia chiaro, Dell’Utri ha tutto il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere come ogni altro indagato. Ma a differenza di un indagato comune, Marcello Dell’Utri è senatore della Repubblica. E come tale è tenuto a chiarire le ombre che lo circondano e a dare spiegazioni. Ai cittadini prima ancora che ai magistrati. A meno che, s’intende, non abbia qualcosa da nascondere. Se, come spiegano ad AgoraVox i suoi difensori, «il senatore è convinto che molto spesso l’interrogatorio non è un atto a difesa dell’imputato, ma a suo sfavore», viene da chiedersi per quale motivo Dell’Utri sia consapevole di poter essere contraddetto dai magistrati a meno di non autoaccusarsi.

Il senatore non ha soltanto scelto di avvalersi della sua legittima facoltà di non rispondere, ma ne ha anche teorizzato la convenienza morale: «sono un indagato provveduto. Mi sono avvalso della facoltà di non rispondere che reputo una regola fondamentale dell’indagato provveduto. Consiglio a tutti gli altri di fare come me». Non è la prima volta che Dell’Utri consiglia, per esperienza diretta, di non rispondere alle domande dei magistrati. Il 29 giugno, appena dopo la condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa, raccontò in conferenza stampa di essere stato lui, nel 2002, a suggerire a Berlusconi, citato come teste imputato di reato connesso nel suo processo, di avvalersi della facoltà di non rispondere, privandolo dell’unica occasione pubblica che aveva di spiegare l’origine delle proprie fortune. Senza contare tutte le volte che ha lodato pubblicamente il silenzio del boss sanguinario Vittorio Mangano, capo mandamento di Porta Nuova. A capo di quella famiglia mafiosa, fino al 1985, c’era Pippo Calò, il filo rosso-sangue che lega Dell’Utri tra la mafia e la massoneria. Flavio Carboni, il faccendiere della P3 amico di Dell’Utri, era uomo di Pippo Calò per conto di cui, nel 1978, trattò con lo Stato per la liberazione di Aldo Moro e per cui, secondo il pentito Salvatore Sbarbagallo, avrebbe curato gli investimenti proprio in Sardegna. E fu a Pippo Calò che Flavio Carboni, l’uomo che avrebbe seguito la fase organizzativa dell’omicidio di Roberto Calvi (accusa da cui è stato assolto nel 2007 per insufficienza di prove), venne collegato nel corso delle indagini sull’omicidio del banchiere milanese che, secondo il consulente della Banca d’Italia Francesco Giuffrida e il perito R. G. Wroughton, incaricato della liquidazione della Banco Ambrosiano Holding di Lussemburgo, avrebbe investito nel gruppo imprenditoriale di Berlusconi.

Su queste sue frequentazioni, però, Dell’Utri ritiene di non dovere nessuna spiegazione. Nemmeno ai cittadini italiani che rappresenta. Intervistato da Il Fatto Quotidiano in merito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino che lo coinvolgono insieme a Berlusconi, Dell’Utri ha risposto: «Questo [Massimo] Ciancimino è uno strano. Lo sanno tutti, a Palermo. È il figlio scemo della famiglia Ciancimino… Non scemo, diciamo che è uno particolarmente labile. Ha un fratello, a Milano, che è una persona dignitosissima, infatti non parla neanche». Non c’è bisogno di aggiungere altro per capire a quale scuola di pensiero aderisca il senatore: la cultura del silenzio omertoso, contrapposto e prevalente all’interesse supremo dei cittadini all’accertamento della verità. Un silenzio volto a difendere la propria impunità di casta e quella dei propri amici. «Silvio non capisce che mi deve ringraziare, perché se dovessi aprire bocca io…»
 

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