Morire lavorando (da una narrazione ‘sociale’ alla realtà: confronti, analisi e spunti)

(Il paese di Saimir di Valerio Varesi, Verdenero, pag.23/28/29)
Lavorare per vivere (o sopravvivere, in alcuni casi) è considerato ‘normale’.
Ma morire lavorando, dovrebbe esserlo meno. Normale.
Le c.d. ’morti bianche’ restano tutt’ora una delle piaghe causa primaria di morti in Italia assieme agli incidenti stradali. Le statistiche come sempre si sprecano, i numeri rotolano, si flettono. Sembrano incredibili. Eppure di questo morire sul posto di lavoro nonché dei numerosi infortuni se ne discute poco, perfino le notizie latitano, sono restìe a diffondersi eccezione fatta per circostanze particolarmente eclatanti (esempi recenti a Parma e Pisa, o in Sardegna) ma molti altri incidenti ogni giorno accadano tra il silenzio e l’indifferenza generale.
Si è detto una media di tre morti al giorno, nella sola Italia.
L’occasione è stata la presentazione a San Lazzaro di Savena, alla Mediateca Venerdì 7 Giugno 2009, del nuovo romanzo di Valerio Varesi, ‘Il paese di Saimir’ (Edizioni Ambiente – Verdenero, marzo 2009).
Varesi, giornalista esperto, sensibile e attento, è noto al pubblico televisivo per aver ‘creato’ il personaggio del commissario Soneri, interpretato a partire dal 2005 da Luca Barbareschi nella serie ‘Nebbie e delitti’ per Rai.
Ma stavolta ha decisamente virato affrontando la ‘sfida’ lanciata da Verdenero, ormai celebre collana che incentra le pubblicazioni su storie di ecomafia in ogni possibile eccezione (già pubblicati Simona Vinci, Eraldo Baldini, Giancarlo De Cataldo, Tullio Avoledo, Loriano Macchiavelli, Wu Ming, Carlo Luccarelli, Patrick Fogli, Massimo Carlotto e molti altri).
Il cambiamento dunque, per un autore apprezzato come Varesi, è stato proprio lo scegliere una tematica delicata, di grandissima attualità ma di quel tipo di attualità sorda, che non ha mai abbastanza voce per farsi sentire quando e quanto bisognerebbe.
E’ lo stesso Varesi ha spiegarne le motivazioni a San Lazzaro di Savena “noi tutti si lavora per vivere, ma lavorare e morire non è ciò che ci si aspetta. Nell’edilizia poi i rischi aumentano, sappiamo che ci sono dinamiche che favoriscono le scarse condizioni di sicurezza, per non parlare delle modalità di assunzione: spesso si reclutano persone per strada, nelle piazze o fuori dai bar e le si carica la mattina presto su furgoni per portarli nei vari cantieri, così ogni giorno. Ma queste persone non esistono, sono di solito ‘invisibili’, non hanno una posizione sociale definita, non sono rintracciabili insomma. Per questo l’eventuale incidente, anche non mortale, finisce facilmente sotto silenzio. Di questo volevo parlare.”
Saimir infatti è un giovane albanese che in Italia cerca e trova un lavoro, ma poi finisce seppellito vivo in seguito a un incidente nel cantiere. Naturalmente Saimir è stato assunto ‘in nero’. Le possibili scelte sono dunque due: denunciare l’accaduto dicendo la verità, per tentare di salvarlo o non intervenire, sperando che nessuno scopra nulla. E la scelta purtroppo è terribile.
Il capomastro scosse il capo senza apparire del tutto convinto.
«E allora… Pace all’anima sua. Cosa cambia? Quando uno è morto..»
«Sì, ma se si trovasse sotto…»
«Bravo, ci sei arrivato. Non devono trovarlo. Se non ci sono feriti né danni alle persone, non c’è nemmeno l’intervento giudiziario. Questi signori» affermò Rivalta dando un’occhiata ai poliziotti «stileranno un rapporto nel quale diranno che è avvenuto un crollo, ma sono solo coci. Fine delle trasmissioni. Dopo starà a noi fare lo sgombero, mi capisci?»
Questa volta Inardo annuì con un sorriso perfido.
(pag. 34)
La vita di Saimir vale meno di un mattone mal riposto. La sua voce, l’unica che direttamente (in prima persona) parla e racconta, pare rimanere intrappolata nelle macerie, mentre fuori, tra giochi di potere, interessi, sentimenti contrastanti e intenti, la vita continua a scorrere.
Da qui inizia la narrazione, i personaggi prendono a rincorrersi, ognuno mostra ‘la sua verità’, la sua personale e dunque soggettiva visione di ciò che credono stia accadendo e di quello che pensano e provano. La storia dunque procede incastrando inquadrature che sono tasselli precisi. Il quadro si completa, senza fretta ‘scava’ negli sviluppi necessari, tra umori, scelte e paure. Piano piano. Ciò che sembra confuso, annebbiato, lentamente si delinea con cruda lucidità.
La virata di Varesi non è dunque solo tematica. Il linguaggio, per sua stessa ammissione, ha perso il garbo delle precedenti narrazioni, si è adeguata a una crudezza necessaria, meno filtrata dall’esigenza di intrattenere piuttosto diretta espressione della ferocia di una realtà verosimile. Perfino nel sesso, lo scaccia pensieri per eccellenza, la ‘carota’ ammaliatrice, la lingua è sprezzante, dolorosa.
(pag.88)
Verosimile è una parola chiave importante, per questo libro quanto per le tematiche sollevate. “E’ possibile” ha detto Marco Monari, tecnico della prevenzione Ausl di Bologna, “che situazioni simili a quella del romanzo, si siano verificate o si verifichino nel territorio seppure a Bologna e provincia i controlli e le attenzioni sono stati intensificati e potenziati negli ultimi anni.”
Verosimile, insomma. Varesi stesso non nega di aver inventato ben poco, in quanto a fatti e dinamiche. Tale affermazione scatena un’altra considerazione importante sulla speranza. Il romanzo non cerca un ‘happy end’ politicamente corretto, tutt’altro. Ed è probabilmente questa sua durezza a lasciare spiazzato il lettore, in cerca spesso – quasi sempre – di rassicurazioni, pacche sulle spalle, sorrisi che cancellano. Il punto però, pare essere un altro: raccontare di una realtà conosciuta o conoscibile, può avere un significato – un senso - che va oltre la trama, oltre l romanzo stesso? Varesi ne è convinto, “L’assenza di speranza vuole essere un segnale, una presa di coscienza. Un riconoscere questa realtà per desiderare di cambiarla. Un punto di svolta perché così non si può andare avanti.”
«Pensi allora che per noi non ci sia speranza?» domandò Altin confidando di essere contraddetto. E nello stesso momento si sentì le lacrime agli occhi come da bambino quando provava un grande dispiacere.
(pag.257)
Eppure.
L’esigenza di scrivere per scatenare reazioni, far riflettere sulla realtà in corso, per non perdere ‘tasselli concreti’, ma anche combattere il silenzio schiacciante, l’indifferenza generale e – a volte – l’impossibilità di ‘far passare’ certi tipi di notizie (come ha fatto notare Luigi Rambelli, responsabile di Legambiente Emilia Romagna); questo tipo di scrittura merita attenzione.
‘Il paese di Saimir’ è e resta un romanzo, ‘ogni riferimento… è da ritenersi puramente casuale’, certo. In quanto narrazione mantiene tutti gli elementi di coinvolgimento e suspance necessari a rendere la lettura intensa, scorrevole e coinvolgente. Eppure non si esce da questa storia incolumi. E’ difficile ignorarne i riferimenti concreti, e il risultato finale si presta a numerosi interpretazioni e ragionamenti.
La sicurezza sul posto di lavoro resterà un miraggio generale? (A questo proposito Simona Mammano – assistente capo della Polizia di Stato - ricorda il processo in corso per la morte di cinque operai della ditta Truck center di Molfettaper, processo che può essere anche seguito on line)
La vita umana (di qualsiasi razza, cultura, età, sesso, varietà possibile) ‘deve’ valere così poco di fronte alle ‘ragioni del mercato’, delle produzioni e della redditività estrema?
C’è o non c’è, questa benedetta speranza di recuperare dignità, consapevolezza, rispetto altrui ed equilibrio tra prestazione lavorativa, remunerazione, condizioni e strumenti oltre i patti mafiosi, di associazioni malavitose?
Domande legate da un sottile filo, probabilmente basterebbe una sola risposta.
Bandite retoriche, cliché o commenti di comodo, per favore.
Saimir non ha paese, è quello che ho pensato a lettura conclusa. Forse neanche noi, però, - noi di cittadinanza italiana o meno - che tranquilli ci lasciamo ipnotizzare dalla tivù, crediamo solo nel Dio Denaro (“Con i soldi divento comunque rispettabile” dirà a un certo punto uno dei personaggi, albanese), ci sforziamo di ricordarci appena un po’ di quello che sentiamo nei tiggì o sbirciamo nei titoli dei giornali, ci sforziamo perché dura poco, il tempo di riempirci la testa con altre notizie nuove, fresche. Non c’è paese per chi si sente solo merda, nell’essere e nel lavorare. Per chi rischia ogni giorno permettendo così ad altri (rispettabili appunto) di continuare a moltiplicare ricchezze e potere, giocando alla piccola divinità del cemento.
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