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Morire lavorando (da una narrazione ‘sociale’ alla realtà: confronti, analisi e spunti)

Credo che siano ore che aspetto qui al buio e al freddo con la polvere che mi raspa la gola e la tosse che mi schianta. Prima o poi verranno a tirarmi fuori. Sono sicuro che lo faranno. Mica possono lasciarmi morire in questa tomba di calcinacci. Dovranno pur sgombrare le macerie e allora salterà fuori. Impolverato, mezzo orbo per il buio, con la fame, ma salterò fuori. Ovvio che ce la farò. E poi ci sono i miei compagni, Mentor, Sabri e Altin che mi verranno a cercare, lanceranno l’allarme. Dovete scavare, cazzò! Lì sotto c’è un nostro compagno! […] Ho paura che un movimento faccia crollare qualcosa e mi schiacci. Basterebbe che cadesse un mattino su uno stinco per spezzarmelo. Mi sento impotente e sottomesso a un equilibrio stabilito dal caso. […] Non ho ancora diciotto anni e non posso essere come mio padre che ormai non ha più speranze e ogni volta che muore qualcuno che conosce dice che per lui sono finite le tribolazioni. Io non lo capisco. La vita è comunque bella. […] Spero che vengano presto.
(Il paese di Saimir di Valerio Varesi, Verdenero, pag.23/28/29)

Lavorare per vivere (o sopravvivere, in alcuni casi) è considerato ‘normale’.
Ma morire lavorando, dovrebbe esserlo meno. Normale.

Le c.d. ’morti bianche’ restano tutt’ora una delle piaghe causa primaria di morti in Italia assieme agli incidenti stradali. Le statistiche come sempre si sprecano, i numeri rotolano, si flettono. Sembrano incredibili. Eppure di questo morire sul posto di lavoro nonché dei numerosi infortuni se ne discute poco, perfino le notizie latitano, sono restìe a diffondersi eccezione fatta per circostanze particolarmente eclatanti (esempi recenti a Parma e Pisa, o in Sardegna) ma molti altri incidenti ogni giorno accadano tra il silenzio e l’indifferenza generale.

Si è detto una media di tre morti al giorno, nella sola Italia.
L’occasione è stata la presentazione a San Lazzaro di Savena, alla Mediateca Venerdì 7 Giugno 2009, del nuovo romanzo di Valerio Varesi, ‘Il paese di Saimir’ (Edizioni Ambiente – Verdenero, marzo 2009). 

Varesi, giornalista esperto, sensibile e attento, è noto al pubblico televisivo per aver ‘creato’ il personaggio del commissario Soneri, interpretato a partire dal 2005 da Luca Barbareschi nella serie ‘Nebbie e delitti’ per Rai.

Ma stavolta ha decisamente virato affrontando la ‘sfida’ lanciata da Verdenero, ormai celebre collana che incentra le pubblicazioni su storie di ecomafia in ogni possibile eccezione (già pubblicati Simona Vinci, Eraldo Baldini, Giancarlo De Cataldo, Tullio Avoledo, Loriano Macchiavelli, Wu Ming, Carlo Luccarelli, Patrick Fogli, Massimo Carlotto e molti altri).

Il cambiamento dunque, per un autore apprezzato come Varesi, è stato proprio lo scegliere una tematica delicata, di grandissima attualità ma di quel tipo di attualità sorda, che non ha mai abbastanza voce per farsi sentire quando e quanto bisognerebbe.

E’ lo stesso Varesi ha spiegarne le motivazioni a San Lazzaro di Savena “noi tutti si lavora per vivere, ma lavorare e morire non è ciò che ci si aspetta. Nell’edilizia poi i rischi aumentano, sappiamo che ci sono dinamiche che favoriscono le scarse condizioni di sicurezza, per non parlare delle modalità di assunzione: spesso si reclutano persone per strada, nelle piazze o fuori dai bar e le si carica la mattina presto su furgoni per portarli nei vari cantieri, così ogni giorno. Ma queste persone non esistono, sono di solito ‘invisibili’, non hanno una posizione sociale definita, non sono rintracciabili insomma. Per questo l’eventuale incidente, anche non mortale, finisce facilmente sotto silenzio. Di questo volevo parlare.”

 

Saimir infatti è un giovane albanese che in Italia cerca e trova un lavoro, ma poi finisce seppellito vivo in seguito a un incidente nel cantiere. Naturalmente Saimir è stato assunto ‘in nero’. Le possibili scelte sono dunque due: denunciare l’accaduto dicendo la verità, per tentare di salvarlo o non intervenire, sperando che nessuno scopra nulla. E la scelta purtroppo è terribile. 

Il capomastro scosse il capo senza apparire del tutto convinto.
«E allora… Pace all’anima sua. Cosa cambia? Quando uno è morto..»
«Sì, ma se si trovasse sotto…»
«Bravo, ci sei arrivato. Non devono trovarlo. Se non ci sono feriti né danni alle persone, non c’è nemmeno l’intervento giudiziario. Questi signori» affermò Rivalta dando un’occhiata ai poliziotti «stileranno un rapporto nel quale diranno che è avvenuto un crollo, ma sono solo coci. Fine delle trasmissioni. Dopo starà a noi fare lo sgombero, mi capisci?»
Questa volta Inardo annuì con un sorriso perfido.
(pag. 34) 

La vita di Saimir vale meno di un mattone mal riposto. La sua voce, l’unica che direttamente (in prima persona) parla e racconta, pare rimanere intrappolata nelle macerie, mentre fuori, tra giochi di potere, interessi, sentimenti contrastanti e intenti, la vita continua a scorrere.



Da qui inizia la narrazione, i personaggi prendono a rincorrersi, ognuno mostra ‘la sua verità’, la sua personale e dunque soggettiva visione di ciò che credono stia accadendo e di quello che pensano e provano. La storia dunque procede incastrando inquadrature che sono tasselli precisi. Il quadro si completa, senza fretta ‘scava’ negli sviluppi necessari, tra umori, scelte e paure. Piano piano. Ciò che sembra confuso, annebbiato, lentamente si delinea con cruda lucidità.
La virata di Varesi non è dunque solo tematica. Il linguaggio, per sua stessa ammissione, ha perso il garbo delle precedenti narrazioni, si è adeguata a una crudezza necessaria, meno filtrata dall’esigenza di intrattenere piuttosto diretta espressione della ferocia di una realtà verosimile. Perfino nel sesso, lo scaccia pensieri per eccellenza, la ‘carota’ ammaliatrice, la lingua è sprezzante, dolorosa.

Questa volta negli occhi di lei si manifestò il terrore, quello vero, e fu come un segnale per Rivalta. Finalmente tornava a temerlo, era quello che voleva. Non il timore mercenario, simulato, ma la paura autentica che gli piaceva tanto osservare negli altri. [...] Ecco cosa attendeva. Il suo pene s’eresse, la voglia crebbe. Le dette un paio di schiaffi, leggeri, per portare il piacere allo zenit, quindi la piegò e le fu addosso da dietro. Nella furia sentì solo lei che lo implorava e poi rantoli e gemiti.
(pag.88)

Oltre tutto l’autore ha spiegato la non abitudine a trattare l’argomento, la quasi totale assenza dovuta alla mancata necessità nei precedenti libri, di inserire scene di questo tipo, eppure in questo romanzo doveva, è necessario al tratteggio, a mantenerlo onesto e verosimile come già ho accennato in precedenza.
Verosimile è una parola chiave importante, per questo libro quanto per le tematiche sollevate. “E’ possibile” ha detto Marco Monari, tecnico della prevenzione Ausl di Bologna, “che situazioni simili a quella del romanzo, si siano verificate o si verifichino nel territorio seppure a Bologna e provincia i controlli e le attenzioni sono stati intensificati e potenziati negli ultimi anni.”

Verosimile, insomma. Varesi stesso non nega di aver inventato ben poco, in quanto a fatti e dinamiche. Tale affermazione scatena un’altra considerazione importante sulla speranza. Il romanzo non cerca un ‘happy end’ politicamente corretto, tutt’altro. Ed è probabilmente questa sua durezza a lasciare spiazzato il lettore, in cerca spesso – quasi sempre – di rassicurazioni, pacche sulle spalle, sorrisi che cancellano. Il punto però, pare essere un altro: raccontare di una realtà conosciuta o conoscibile, può avere un significato – un senso - che va oltre la trama, oltre l romanzo stesso? Varesi ne è convinto, “L’assenza di speranza vuole essere un segnale, una presa di coscienza. Un riconoscere questa realtà per desiderare di cambiarla. Un punto di svolta perché così non si può andare avanti.”

 «Senti» disse lei improvvisamente decisa «questo è un mestiere di merda, ma per noi ci sono solo mestieri di merda Cosa vorresti che facessi? Che piantassi tutto e venissi con te per poi chiudermi in una casa smerdare vecchi tutto il giorno e la notte? […] Ho paura, faccio di tutto per non innervosirli e tiro un sospiro di sollievo quando scendo. Una vita di merda, certo, ma almeno metto da parte dei soldi. C’è chi rischia per una miseria e finisce per morire schiacciato come un topo».
«Pensi allora che per noi non ci sia speranza?» domandò Altin confidando di essere contraddetto. E nello stesso momento si sentì le lacrime agli occhi come da bambino quando provava un grande dispiacere.
(pag.257)

In questo stralcio di dialogo si avverte tutto il dolore, l’inevitabilità e la crudezza di una realtà che pare senza scampo (non credo sia difficile intuire il mestiere della ragazza). Perfino i ragionamenti non danno scampo.

Tre morti al giorno, ha sottolineato più volte Marco Monari. In Italia certo. Numeri freddi, forse anche vuoti per chi li sente e non riesce a immaginarsi i volti. Numeri imperfetti magari, che come sempre vanno presi con ‘circostanziale ragionata riserva’.

Eppure.
L’esigenza di scrivere per scatenare reazioni, far riflettere sulla realtà in corso, per non perdere ‘tasselli concreti’, ma anche combattere il silenzio schiacciante, l’indifferenza generale e – a volte – l’impossibilità di ‘far passare’ certi tipi di notizie (come ha fatto notare Luigi Rambelli, responsabile di Legambiente Emilia Romagna); questo tipo di scrittura merita attenzione.

‘Il paese di Saimir’ è e resta un romanzo, ‘ogni riferimento… è da ritenersi puramente casuale’, certo. In quanto narrazione mantiene tutti gli elementi di coinvolgimento e suspance necessari a rendere la lettura intensa, scorrevole e coinvolgente. Eppure non si esce da questa storia incolumi. E’ difficile ignorarne i riferimenti concreti, e il risultato finale si presta a numerosi interpretazioni e ragionamenti.

La sicurezza sul posto di lavoro resterà un miraggio generale
? (A questo proposito Simona Mammano – assistente capo della Polizia di Stato - ricorda il processo in corso per la morte di cinque operai della ditta Truck center di Molfettaper, processo che può essere anche seguito on line)

La vita umana (di qualsiasi razza, cultura, età, sesso, varietà possibile) ‘deve’ valere così poco di fronte alle ‘ragioni del mercato’, delle produzioni e della redditività estrema?
C’è o non c’è, questa benedetta speranza di recuperare dignità, consapevolezza, rispetto altrui ed equilibrio tra prestazione lavorativa, remunerazione, condizioni e strumenti oltre i patti mafiosi, di associazioni malavitose?

Domande legate da un sottile filo, probabilmente basterebbe una sola risposta.
Bandite retoriche, cliché o commenti di comodo, per favore.

Saimir non ha paese, è quello che ho pensato a lettura conclusa. Forse neanche noi, però, - noi di cittadinanza italiana o meno - che tranquilli ci lasciamo ipnotizzare dalla tivù, crediamo solo nel Dio Denaro (“Con i soldi divento comunque rispettabile” dirà a un certo punto uno dei personaggi, albanese), ci sforziamo di ricordarci appena un po’ di quello che sentiamo nei tiggì o sbirciamo nei titoli dei giornali, ci sforziamo perché dura poco, il tempo di riempirci la testa con altre notizie nuove, fresche. Non c’è paese per chi si sente solo merda, nell’essere e nel lavorare. Per chi rischia ogni giorno permettendo così ad altri (rispettabili appunto) di continuare a moltiplicare ricchezze e potere, giocando alla piccola divinità del cemento.

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