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Medio Oriente: se gli artisti governassero

Amnesty International ci racconta in questi giorni di un incrudelirsi della già crudele repressione del dissenso in Iran.

Il governo Ahmadinejad è rimasto al potere grazie a quelli che l’opposizione da subito denunciò come brogli elettorali; e poi alla violenza di polizia e basiji contro le grandi manifestazioni di protesta cui parteciparono migliaia di persone ed anche molte giovani donne (e il settimanale left dedicò loro una delle sue più belle copertine che ripropongo qui sopra).

Gli oppositori all’estero e non (prendetela per buona, non farò certo dei nomi) hanno raccontato di scene drammatiche, di migliaia di imprigionati, di torture e di uccisione arbitrarie che in breve hanno stroncato la capacità reattiva degli “indignati” di Teheran. E nel frattempo le condanne a morte sono quadruplicate con l'avvicinarsi delle nuove elezioni.

La temperatura politica è stata poi ampiamente alzata esportando, come si fa di solito a quelle latitudini, verso il nemico esterno - il piccolo e il grande Satana – lo sdegno necessario a ricompattare i favori delle masse, rurali e religiose, attorno al solito leader, uso a negare l’olocausto per facilitarsi il compito di negare la legittimità all’esistenza di un altro stato, peraltro riconosciuto dalla comunità internazionale. Compito reso più semplice dalla pronta risposta dei governanti di Gerusalemme che, certo, non perdono occasione per alimentare e mantenere alta l’isteria sterminatoria diffusa nel paese ebraico, finalizzandola alla crescente militarizzazione della società.

Alcuni commentatori sconsolati hanno gettato la spugna e lamentano comprensibilmente di non aver più parole per parlare della questione israelo-palestinese; al silenzio virtuale dei giornalisti italiani ha fatto eco in questi giorni il silenzio reale di un giudice della Corte Suprema israeliana che, essendo di etnia araba, si è rifiutato di cantare l’inno nazionale per il semplice fatto che l’Hatikvah, l’inno israeliano (sorprendentemente basato in parte su un'antica melodia italiana del Seicento chiamata "La Mantovana" o "Fuggi, fuggi, fuggi"), fa esplicito riferimento al popolo ebraico e alle sue speranze di ritorno nella terra dei padri.

Lui ovviamente è rimasto a bocca chiusa. Gran subbuglio, ma - nello stesso momento - grande evidenza a due fatti apparentemente contraddittori: un arabo può tranquillamente diventare giudice della Suprema Corte nel paese ebraico (alla faccia di chi continua a descrivere Israele come uno stato razzista; provate a trovare un ebreo nominato ad una carica così alta in uno stato islamico). Ma contemporaneamente appare evidente che quello stesso Stato si trova nella situazione di imporre ad un cittadino di etnia minoritaria l’esaltazione canora della storia della maggioranza. Segno di prevaricazione con ampi dubbi sulla democraticità della faccenda, anche se non solo qui succedono cose di questo tipo.

Al contrario, nella vicenda israelo-iraniana ecco che si sentono altre voci, voci nuove e, udite udite, voci umane (insieme naturalmente a quelle che sempre più paventano - o propongono - il conflitto prossimo venturo).

Sono voci umane infatti quelle che commentano con favore e con piacevole sorpresa A separation, il film iraniano risultato vincitore dell’Oscar come miglior film straniero, battendo per un pelo proprio l’israeliano Footnote - Hearat Shulayim - pellicola su un difficile rapporto padre-figlio.

Il film iraniano pare che sia molto apprezzato e molto visto nei cinema di Tel Aviv, cioè nelle sale del nemico più pericoloso al momento per il paese islamico.

La bella Leila Hatami interpreta una donna che vuole fuggire dall’Iran portandosi via la figlia minore, mentre il marito vuole restare per accudire il vecchio padre. Superfluo tentare di analizzare la trama familiare, tanto sono trasparenti i messaggi; per nulla superfluo invece notare come l’osservazione della vita quotidiana, i rapporti, le tensioni, i legami familiari, gli affetti, l’umanità insomma, svela agli spettatori israeliani la verità sul terrificante ‘nemico’ pronto (ipoteticamente) al prossimo olocausto nucleare.

Non vedere l’Iran solo come Ahmadinejad, come gli ayatollah o i pasdaran o i basiji; come le minacce e i negazionismi da fascistello di borgata, ma vedere uomini e donne, vecchi e bambini e svelarne le umane fragilità, le umane dolcezze, le umane difficoltà e le umane affinità è il miglior antidoto, sembra, contro la progressiva “disumanizzazione” del nemico che si ritiene mortale. Parlo degli spettatori israeliani, ma non ho dubbi che se i film (spesso molto buoni) prodotti in Israele fossero visti nei paesi arabi o in Iran (non mi risulta che sia possibile, ma potrei sbagliare), l'allucinatoria percezione del 'nemico' cambierebbe anche lì.

Segno che se gli artisti governassero il mondo e i politici girassero film avremmo forse una pessima cinematografia, ma una vita molto più pacifica (e non solo in Medio Oriente).

Le cose naturalmente non vanno così e i media iraniani non hanno mancato di interpretare la vittoria dell’Oscar come una sconfitta del nemico “sionista”. Punto e accapo, a conferma che la madre degli idioti è sempre incinta.

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