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Ma Pontida è sempre più blu

In politica i colori sono importanti: riassumono e simboleggiano identità e valori. E dietro il passaggio dal verde al blu della Lega di Salvini c’è una strategia ben precisa

di  Giovanni Diamanti

La domenica di Pontida ha trasmesso agli osservatori un colpo d’occhio nuovo, diverso da quelli a cui ci aveva abituato negli ultimi decenni, dal 1990 in poi. Là dove c’era il verde (delle bandiere, delle scenografie, delle magliette) ora c’è il blu, il colore simbolo del nuovo corso impresso da Matteo Salvini alla nuova Lega nazionale. Il leader era sovrastato da un allestimento blu notte, colore ripreso dalla campagna di Donald Trump, e un claim rassicurante: “Il buonsenso al Governo!”. Già l’anno scorso l’allestimento leghista aveva anticipato questo cambiamento cromatico: una rivoluzione graduale, per far interiorizzare ai militanti un passaggio epocale.

L’identità visiva dei partiti è un elemento fondamentale della comunicazione politica, e l’uso del colore è forse l’elemento più importante di questa identità visiva. La grafica non è solo tecnica: serve a trasmettere valori, identità, emozioni. Nel nostro Paese, in particolar modo, il “colore politico” ha trovato un proprio ruolo già dagli albori della Repubblica. Tanto che i militanti del Partito Comunista venivano chiamati con un singolare appellativo “cromatico”: i “rossi”, dal colore del proprio partito. Un colore di fuoco e di forza, usato dalla sinistra in tutta Europa, ma curiosamente simbolo dei Repubblicani negli Stati Uniti, a confermare che i colori e le identità visive variano in base al contesto. Ai “rossi” facevano da contraltare i militanti missini: “neri”, come le camicie del regime fascista.

Nell’Italia della Seconda Repubblica, mentre da una parte la filiera PDS-DS lentamente si allontanava dal rosso ereditato dalla Bolognina e la Margherita veniva accostata più al fiore che rappresentava che a un colore, dall’altra Forza Italia si legava alla Nazionale di calcio, prendendo il proprio nome da un coro e il colore azzurro dalla divisa della squadra. Un colore così importante da diventare slogan: la canzone “Azzurra libertà” nel 1999 diventerà l’inno del partito. Il Partito Democratico, invece, si è spesso perso tra il tricolore, ripreso nel logo, il verde utilizzato nel periodo veltroniano e il rosso, preferito da Bersani: una confusione cromatica che rispecchia e conferma una ben più ampia confusione di identità, rimasta irrisolta negli anni.

La Lega (all’epoca “Nord”) fin dagli inizi ha legato le proprie battaglie autonomiste e secessioniste al colore verde. Dalle “camicie verdi”, nome con cui venivano chiamati i militanti leghisti, ai fazzoletti verdi da indossare come pochette alle manifestazioni e alle ospitate televisive. Dopo decenni, la New Wave salviniana ha dal primo giorno impresso una strategia nuova. Prima, un cambio di posizionamento: non più “autonomista”, non più “sindacato del Nord”, ma partito “nazionale”, “sovranista”, “di destra”. Poi, un cambio nei simboli: da un nuovo nome (non più “Lega Nord” ma più semplicemente “Lega”) a, infine, un nuovo colore. Il blu di Donald Trump. Non solo: un colore simile ma più intensorispetto agli alleati di Forza Italia. Il verde rappresentava anche la prima parte del tricolore, perfetto per l’identità visiva di quella Lega che parlava solo a una parte d’Italia. Oggi, il blu dà colore a questo cambiamento, da partito locale a nazionale.

Perché i colori, in politica, servono a questo. A costruire identità. E una nuova identità politica, per essere rafforzata e legittimata, ha bisogno di cambiare anche l’identità visiva – e il colore.

Per questo, la Lega sempre più nazionale diventa sempre più blu.

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