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Libano: Kamal Jumblatt, il sogno infranto. Il film di Hady Zakkak

(di Aldo Nicosia). 

Kamal Jumblatt, testimone e martire: il titolo del nuovo documentario di Hady Zakkak (2015) costituisce già di per sé un testo e un pre-testo per consegnare la storia contemporanea del Libano ai suoi giovani, o ancora a un telepubblico non libanese che ha fatto non poca fatica, nel ginepraio di eventi e facce di personaggi eternamente presenti sugli schermi tv di tutto il mondo, durante un decennio e mezzo di guerra “incivile”, a distinguerne e valutarne etica, orientamenti, alleanze.

“Ma chi è Kamal?”

Perché proprio Kamal Jumblatt, e non un altro leader della recente storia del Libano?

Al sottoscritto che ha una frammentaria conoscenza di tale storia, questo documentario fornisce una convincente risposta a un identico interrogativo che lo ha attanagliato per anni, dopo aver ammirato il brillantissimo film West Beyrouth (1998). Dopo la visualizzazione della notizia tv dell’assassinio del leader druso, il regista Doueiri inserisce la scena di una manifestazione pubblica, in cui si trovano a marciare, per puro caso, i due adolescenti protagonisti del film, Omar e Tareq. Entrambi, con l’euforia e la spensieretezza della loro età, cominciano a imitare gli altri gridando slogan che inneggiano al leader martirizzato : “Con l’anima, col sangue, ti vendicheremo, Kamal!”. D’un tratto, uno dice all’altro: “Ma chi è Kamal?”. Risposta: “Boh, non lo so.”

A mio avviso, la scelta di Doueiri non è stata per niente affatto casuale, ed è cruciale soprattutto se contestualizzata in una filosofia che intende cogliere gli eventi della guerra libanese dal punto di vista di due ragazzi che non hanno gli strumenti cognitivi per parteggiare per qualcuno, scegliendo, di conseguenza, di non menzionare leaders politici locali (con l’unica eccezione della breve carrellata documentaristica di volti ed episodi poco prima del finale).

Non c’è dubbio che la figura di Kamal Jumblatt sia singolare e trasversale, nel panorama della vita pubblica libanese e mediorientale, e che abbia esercitato ed eserciti tuttora un fascino inesauribile. Il documentario di Zakkak ci restituisce il personaggio nella sua tridimensionalità, a tutto tondo, svelandone aspetti poco noti al grande pubblico,e sicuramente – mi azzardo a dire – anche alla stragrande maggioranza del pubblico libanese.

Il regista dirige la sua mdp verso dettagli, cimeli, simboli, oggetti, documenti, e la muove in molteplici spazi, fisici e mentali: palazzi, biblioteche, centri di documentazione, scuole, persino luoghi esotici, che hanno visto la presenza del leader. Il sonoro è affidato solo ai discorsi, pronunciati dalla sua voce calma in interviste televisive o radiofoniche, o altrimenti estrapolati e letti da una voice off, alle descrizioni malinconiche dell’unico figlio Walid, o di altri preziosi testimoni.

Il documentario parte con la concitata ricostruzione di fiction della scena dell’agguato al leader, cui fa da contraltare l’atarassia sprigionata dalla sua frase: “La morte è solo un’illusione che si realizza in stato di veglia. In realtà non c’è mai stato né un inizio, né una fine”. L’agguato ritorna verso la fine del film, quasi a completare il cerchio, o forse a sottolineare che la fine del film, o quella dei suoi sogni, è anche il suo inizio. Sogni seppelliti e infranti come i vetri della carcassa di una Mercedes, che è poi, se vogliamo, quella testimone muta della storia libanese di un precedente documentario di Zakkak, Mar Sedes.

I sogni di Jumblatt

“Sogno un paese laico, non quello di San Marone o del profeta Muhammad, né ovviamente di al-Hakim bi-amrillah. (…) Sogno leader politici che credano nell’unità, che applicano la giustizia e la sicurezza sociale”.

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La trasversalità della figura di Jumblatt ha origine dal fatto che il Partito Socialista Progressista (PSP), di ispirazione profondamente laica, nasce nel 1949 con l’obiettivo di opporsi al carattere confessionale della politica libanese. Tra i soci fondatori e i membri attivi figurano infatti sunnitisciiti, cristiani progressisti. Ovviamente tale carattere rivoluzionario per la mentalità libanese lo fa scontrare con le autorità, già nel 1951, col cosiddetto “battesimo di sangue” di Baruk. Quello stesso anno diventa leader del Fronte nazionale delle Forze Socialiste e si trova a contrastare la politica filo-statunitense di Camille Chamoun.

In campo internazionale Jumblatt sostiene i movimenti arabi di liberazione contro il colonialismo. Stringe rapporti con Nasser e, dopo l’annuncio della nascita della RAU, sostiene la rivolta contro un nuovo mandato a Chamoun. La mini guerra del 1958 è già nell’aria (raccontata da Zakkak in Honeymoon 1958). Dopo lo sbarco dei marines in Libano, le acque si calmano e, nel luglio dello stesso anno, viene eletto Fu’ad Chehab alla presidenza. Si apre per Jumblatt una lunga e proficua collaborazione col governo: assume vari incarichi ministeriali, cercando di implementare le sue idee socialiste in un ambiente impregnato di liberismo.

Drusismo e universalismo

Jumblatt sembra aver un rapporto speciale e anomalo con la religione, e in questo è sostenuto dal carattere eclettico della dottrina drusa, che lo porta ad accogliere gli insegnamenti della Bibbia, la Torah, Hermes Trismegisto e i saggi della filosofia indiana. L’influenza di tale corrente è così forte che andrà a visitare l’India, nel 1951, e ci tornerà regolarmente ogni anno. A Trivandum, nella regione del Kerala, la mdp di Zakkak va alla ricerca delle atmosfere di pace interiore che Jumblatt cerca, lontano dai tumulti libanesi: si interessa alle tecniche di yoga e di meditazione, scopre la stretta dialettica tra cibo e umore, critica il modello consumistico, ricerca l’armonia interiore. Critica anche la mentalità individualistica ed egoistica degli arabi, che avrà come giusta mercede la sconfitta del 1967 contro Israele. Nel 1969 sostiene gli accordi del Cairo per organizzare l’azione della resistenza palestinese.

Dal confessionalismo a un modello di Stato moderno.

È fermamente convinto che il problema principale del Libano sia la sperequazione tra una casta di ricchi e il resto della popolazione. Si rende così necessaria una serie di riforme democratiche delle istituzioni: dalla legge elettorale all’implementazione del secolarismo, fino allo sviluppo rurale per evitare i disastri dell’inurbamento. La priorità è quella liberare il Paese da quello che lui chiama “la teocrazia patriarcale”.

Allo scoppio della guerra “incivile” è a capo del Movimento Nazionale, coalizione che raggruppa 13 partiti. Invita la destra cristiana a non far intervenire il vicino Hafez al-Asad. Le sue parole a proposito sembrano profetiche: “Se la Siria entra in Libano, non ne vorrà più uscire”.

È proprio la Siria la sua grande delusione: quella che lui riteneva alleata della sinista e della causa palestinese, si schiera con la destra libanese. Critica duramente il regime di al-Asad e, in un intelligente montaggio, sentiamo tutto ciò proprio quando ritorna la scena dell’agguato alla sua Mercedes. La stessa auto, umanizzata dalle ferite inferte dai proiettili, i detriti dei vetri, le macchie di sangue sui seggiolini, fa da teatro alle affermazioni di un Jumblatt che si desta dai sogni di un Libano laico e moderno, democratico e riformista, per vederlo sull’orlo della catastrofe, perché in preda a politici senza valori etici.

Zakkak racconta con l’agilità della sua mdp e il rigore scientifico di ricerca dei documenti, teoria e prassi di un metodo di vita, di tendenza sufi, etereo e leggero, coraggioso e impegnato: Jumblatt è stato l’ultimo patriota del Libano. Forse anche i suoi avversari politici glielo riconoscerebbero. Ma dovremmo chiederlo alla mdp del regista… in un prossimo film!

 
 
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