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Campo profughi di Damasco: sei mesi di Yarmuk e un peso sul cuore

(di Claudia Avolio, per SiriaLibano). Mentre scrivo provo un senso di angoscia. Qualcosa di indefinito, ma con un suo peso specifico. Ogni volta che ho pensato di scrivere di Yarmuk, in questi ultimi mesi, mi sono sentita così.

- Papà… Che cos’è la verità?

- È il riflesso della tua immagine nello specchio, mio caro.

- Io…?

- Sì, proprio tu.*

Stavolta non è solo per l’assedio totale, imposto dal regime siriano e dalle milizie lealiste ormai da oltre tre anni, da luglio 2013. Né soltanto per l’acqua, che manca nel campo da due anni esatti e rimane una delle difficoltà più importanti con cui confrontarsi ogni giorno per gli abitanti. E non è neanche solo per la mancanza di assistenza medica, gli scontri, i cecchini d’ogni colore, gli assassini politici, gli arresti arbitrari e i destini incerti di chi li subisce. Certo questi erano e restano i veri problemi del campo. Eppure no, non è solo questo che mi inquieta, ora.

“Molto è cambiato e più di quanto immagini. Ma noi stiamo bene, Cucu”. Ha poco più di vent’anni, l’amico che dall’interno di Yarmuk mi risponde così, usando uno dei tanti diminutivi del mio nome in arabo.

È da quando lo Stato islamico si è scontrato con Jabhat Fath ash Sham (l’ex Jabhat an Nusra) nell’aprile scorso, che ho percepito per Yarmuk un cambiamento di direzione. La presenza di Daesh si è fatta da allora sempre più invadente, e sempre più impossibile ignorarne i risvolti.

Aprile – SCONTRI, CECCHINI E PROGETTI DI VITA

Aprile è stato un mese nero, sia per via degli scontri che rendevano difficile per i civili procurarsi cibo e acqua, sia per la presenza dei cecchini.

Come documentato dal Gruppo d’azione per i palestinesi in Siria, il 15 aprile il giovane Malek Uthman è morto dopo essere stato colpito da un cecchino. Muhammad Diab è stato ferito alla testa in zona ‘Uruba a sud-est del campo e trasportato prima a Yalda e poi a Damasco per ricevere le cure necessarie, morendo per le gravi ferite riportate. Una bambina di 8 anni di nome Ru’a è rimasta ferita per il colpo di un cecchino in piazza Abu Hashish. Appena un giorno dopo, il 16 aprile, un membro dell’assemblea cittadina, Hisham Zawawi, è stato colpito da un cecchino ed è morto.

Lascia senza parole il video diffuso in quei giorni dagli attivisti in cui un anziano signore, colpito da un cecchino (la pagina locale che l’ha pubblicato attribuisce la responsabilità a Daesh, io non ho la possibilità di verificare in modo indipendente). Con il volto sporco di sangue, ripete: “Sono musulmano, non sono un infedele… Sono musulmano, musulmano! Perché mi ha colpito così?”.

La prima cosa che esclama è Allahu akbar, “Dio è [il più] grande”. Parole a cui segue il termine kafara, infedeli, che sembrerebbe rivolto proprio agli uomini di Daesh. Nulla può spiegare meglio e in modo tanto semplice la difficoltà di un musulmano stretto tra la morsa dell’estremismo da una parte e dall’altra dall’accusa – semplicemente in quanto musulmano – di caldeggiare lo stesso estremismo di cui è vittima. Sono 40 secondi pieni di un significato che credo vada oltre Yarmuk.

La situazione sembrava insostenibile in quel periodo.

Attivisti di lungo corso, tra i miei migliori amici del campo, che avevano sino ad allora resistito oltre le proprie possibilità. Che avevano visto morire amici e altri partire, abitanti spegnersi per le conseguenze dell’assedio, i colpi di mortaio cadere a poca distanza da loro, eppure avevano scelto di restare, sono stati costretti ad andarsene. Perché magari gli scontri più duri si svolgevano proprio sulla via di casa.

Ho sentito in quel momento che una fase di Yarmuk si era conclusa. Lasciando i giorni a venire a un’incognita, e i miei amici a un futuro basato di più sul proprio personale progetto di vita. L’affermarsi così violento di Daesh ha innescato una sorta di accelerazione nel percorso di alcuni ragazzi, fino a quel momento consacrati del tutto al proprio campo, quasi annullati nelle loro aspirazioni sociali. C’è chi si è fidanzato e poi sposato, e chi attende di coronare l’evento a breve. Quasi per tutti a Yarmuk questa è una tappa fondamentale, e di certo avevano già l’intenzione di viverla prima o poi. Ma è come se lo shock che hanno rappresentato gli scontri tra Daesh e Fath ash Sham per il controllo di Yarmuk dall’interno, avesse ridato a quei ragazzi una prospettiva più personale da cui ricominciare a guardarsi prima dentro, e poi intorno.

Non dimenticherò mai la tenerezza di un uomo che, più fortunato di altri miei amici costretti a lasciare il campo, si era dovuto spostare di pochissimo per via degli scontri e già sentiva nostalgia. E scriveva verso fine aprile: “Sono senza casa nel mio campo. Sono a meno di 100 metri da casa mia e non sono riuscito a raggiungerla, ma nonostante tutto resterò nel campo”.

Maggio – DA YARMUK ALLA PALESTINA

A maggio, con ben altri toni, un mio giovane amico scriveva da Yarmuk: “Cinque lunghi anni e io sto cercando di accettare la situazione. E qual è la situazione? Ho semplicemente perso me stesso per amore del campo. E cosa ne ho ricavato? Io mi sono perso, il campo si è perso, accidenti a tutto in questo dannato universo!”. 


Il giorno dopo si celebrava il 68° anniversario della Nakba (15 maggio 1948), la “catastrofe” vissuta dai palestinesi costretti a lasciare la loro terra con la creazione dello Stato di Israele. Il vignettista siro-palestinese di Yarmuk, Hani Abbas, ha condiviso in quei giorni una sua opera che ritrae la chiave del ritorno dei palestinesi nelle proprie case in Palestina: la chiave è diventata un’estensione del palestinese – la testa – e sbatte sul corpo in cerca di un’entrata, lasciando a ogni tentativo segni rossi di serrature che non si aprono.

Nel campo questa ricorrenza viene celebrata ogni anno e anche quest’anno, nonostante tutto, sono riusciti a organizzare qualcosa. Bambini reggevano cartelli con scritto “Nakba palestinese – non resterò un rifugiato” e nomi di luoghi come al Quds (Gerusalemme), Acri, Safad. Un cartello emblematico del ruolo di Yarmuk – considerato da tempo la capitale della diaspora palestinese – diceva “Dal campo di Yarmuk alla Palestina”. Oltre a indicare un gesto “da noi a voi”, è anche e soprattutto la descrizione di un percorso partito dalla Palestina nel momento di lasciarla, passa per il campo e riporta in Palestina chiudendo il cerchio. Il senso di questa frase spiega perché gli abitanti sono così attaccati al campo, perché rappresenta davvero un proseguimento quasi spaziale della terra a cui sentono che un giorno potranno fare ritorno.

Giugno e luglio – LA FESTA FERITA. MI HANNO CHIAMATO RIFUGIATO

Tra giugno e luglio anche il campo ha vissuto il suo Ramadan, il mese sacro per i musulmani, in cui si compie il digiuno fino al tramonto e che culmina nei giorni di festa dell’‘id. Anas Salameh, artista siro-palestinese di Yarmuk oggi in Norvegia, ha realizzato per questo Ramadan un’opera in cui la mezzaluna simbolo del mese sacro fa come da vela luminosa su un barcone che trasporta via mare interi edifici. È un periodo dell’anno in cui stare insieme, condividere, ritrovarsi. E chi non può farlo, soffre di quest’atmosfera di festa perché sente di non avere proprio nulla da festeggiare. Perché la perdita è enorme e nulla è com’era prima dell’assedio e della guerra.

Gli auguri che ci si scambia, allora, con la classica formula kullu ‘am wa antum bi-khayr (“che voi possiate stare bene ogni anno”), si tingono di sfumature malinconiche, diventano occasione per esprimere la propria pena.

Hani Abbas scriveva così dalla Svizzera: “Fino a qualche tempo fa, a ogni ‘id, a causa di tutti i biscotti della festa che mangiavo, sentivo un incendio nello stomaco. Ora, a ogni ‘id, sento un incendio nel cuore”.

Amin, che vive ancora a Damasco, poco lontano dal campo, dava sfogo a un senso di forte nostaglia: “Altro che festa… Durante l’‘id dormivo beato per tre giorni a casa di mio nonno. Anche ora dormo durante la festa, ma casa di mio nonno non c’è più. E il mio quartiere ha detto addio e se n’è andato, le strade si sono stancate. Cavolo, siamo stati perfino abbattuti dai muri”.

E un giovane neopapà che oggi vive a Yalda, scriveva: “So che non siete dell’umore per questo genere di cose e che vi hanno stufato. Ma se ripenso a quando camminando per le strade vedevo la gente, le bancarelle, i negozi, la folla. Mentre ora cammino e mi sento strano, ho un groppo in gola nel vedere il campo, la sua gente e i suoi giorni ridotti così”.

Il 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato, un attivista del campo sempre a Yalda, commentava: “Che significa rifugiato? Che parola volete che esprima meglio di questa le nostre sofferenze? Rifugiato… Mi hanno chiamato rifugiato“, un verso di una canzone di Ahmad Kaabur, compositore e cantante libanese.

INSEGNANDO A DARE IL MASSIMO

Tempo fa avevo visto una foto in cui Anwar, tra gli attivisti di Yarmuk oggi a Yalda, presenziava una piccola cerimonia che coinvolgeva studenti della zona. Gli avevo detto scherzando che era ovvio fosse lì, essendo da tutti considerato un mu’allim, un maestro. Mi aveva risposto che vista la mancanza di insegnanti a causa dell’assedio, si era offerto di dare lezioni di fisica agli studenti. Il 2 luglio l’amico in comune Abdallah lo ringraziava per gli sforzi in quella direzione, segnalando che nell’area attorno a Damasco che comprende Yarmuk, Yalda e le altre zone circostanti ed è nota come al-mintaqa al-janubiyya (la regione meridionale), tre dei primi quattro studenti con i migliori risultati agli esami di maturità li aveva preparati proprio Anwar.

Non mi sorprende la bravura di quei ragazzi e del giovane che li ha preparati con tanto entusiasmo. L’istruzione è, nelle comunità palestinesi, uno degli aspetti della vita tenuti più in alta considerazione in assoluto. Me ne sono resa conto quando al figlio di un mio amico di Yarmuk oggi in Svezia, Basel, è spuntato il primo dentino.

Alle congratulazioni si aggiunge in genere sempre un augurio che guarda al futuro. E tra gli auguri che venivano rivolti al figlio di Basel c’era: “Che possa conseguire i più alti attestati”. Non capivo in che senso, attestati, e perché quel riferimento in età così tenera? Il fratello del mio amico, Amer, mi ha spiegato allora il bellissimo significato che ha quella frase: “Perché per noi studiare è importantissimo, così quando c’è una ricorrenza che riguarda un bambino, anche se è molto piccolo gli si può già augurare di laurearsi ai massimi livelli quando sarà grande”.

CAMBI DI SCENARIO PER IL CAMPO?

All’inizio di luglio si è iniziato a parlare di un accordo tra regime siriano e Fath ash Sham (allora nota ancora come Jabhat al Nusra) per “il ritiro completo da Yarmuk da parte di al Nusra al seguito delle loro famiglie verso Idlib, roccaforte della stessa al Nusra”: così scriveva il Gruppo d’azione. Spesso gli accordi a Yarmuk vengono firmati o raggiunti restando però a lungo (o del tutto) inapplicati. “È probabile che questa strategia demografica – nella quale i sunniti vengono spediti nella Siria del nord mentre il regime riacquista il controllo dei sobborghi della capitale – non si fermerà ad al Waer. Il resto dei sunniti nella Ghuta, a Zabadani, a Madaya, a Yarmuk e in altre zone attorno a Damasco alla fine saranno altrettanto costretti ad andarsene”, scriveva di recente sul tema Hanin Ghaddar per il Washington Institute.

Due sembrano gli scenari possibili: se l’accordo per il ritiro di Fath ash Sham venisse davvero applicato, il resto degli abitanti di Yarmuk si ritroverebbe sotto il controllo di Daesh. Se però si attuasse in toto la strategia demografica di cui parla Ghaddar, coinvolgendo dunque tutte le persone rimaste nel campo, il regime vi avrebbe accesso. L’assedio in sostanza finirebbe, ma il futuro resterebbe più che mai incerto per gli abitanti. Soprattutto per chi si è esposto di più, come gli attivisti civili. Tanto prematuro azzardare previsioni ora, quanto opportuno iniziare a valutare i risvolti di ciò che potrebbe accadere in base a linee già tracciate dagli eventi.

GLI ASSASSINI POLITICI, SANGUE CHE NON SI PLACA

Il 15 luglio si è verificato l’ennesimo assassinio politico. Vittima un attivista, Bahaa Amin detto Abu Salim. L’uomo, a capo del circolo sportivo Bisan, secondo quanto descritto dal Gruppo d’azione “si era messo all’opera per fornire cibo ai civili durante il Ramadan, era membro di Fath e un mediatore che lavorava per facilitare i problemi degli abitanti del campo”. Aveva quattro figli piccoli. Il suo nome riporta subito alla memoria un altro assassinio politico avvenuto qualche anno fa: a morire allora fu Bahaa Saqer (Abu Hamza), membro della Lega civile di Yarmuk e figura di riferimento nel campo per l’aiuto che forniva alla sua gente. La sua morte resta una ferita aperta per il bene che voleva a Yarmuk e che Yarmuk nutriva per lui.

Personalmente, credevo conclusa da tempo l’orribile ondata di assassini che ha macchiato di sangue Yarmuk negli scorsi anni d’assedio.

Invece, purtroppo, poco dopo è stato di nuovo preso di mira anche lui, Abbuda. Il 22 luglio Abdallah al Khatib, tra i migliori attivisti di Yarmuk che da un po’ vive in una delle zone circostanti il campo, è stato raggiunto da due colpi d’arma da fuoco, ma si è salvato. In passato avevano già tentato di rapirlo. Lo stesso giorno di 29 anni fa il vignettista palestinese Naji al ‘Ali veniva assassinato a Londra, morendo in ospedale circa un mese dopo.

Agosto e settembre – IMPOSIZIONI DI DAESH, DETTAGLI DA CONSIDERARE

Scattare foto e fare riprese a Yarmuk è diventato difficile: bisogna ottenere l’autorizzazione da Daesh. È probabile però che i telefonini riescano ad aggirare il divieto più facilmente. Risale alla prima settimana di agosto il caso di un attivista che sarebbe stato arrestato dall’organizzazione per aver ripreso con una fotocamera l’interno di una scuola senza aver chiesto prima “il permesso”. L’attivista è stato poi rilasciato due giorni dopo.

Sempre il Gruppo d’azione ha parlato dell’intenzione da parte di Daesh di “chiudere tutte le scuole nel campo” e di impedire a chiunque non segua i suoi programmi di studio di impartire lezioni nelle scuole. Quando, incredula, ho chiesto a un mio amico poco lontano da Yarmuk se la notizia fosse vera, mi ha dipinto con due parole uno scenario che sino ad allora avevo creduto fosse solo una esagerazione di notizie: “kullu rah”, “è svanito tutto, [nulla è come prima]”. In base a queste nuove disposizioni, se qualcuno vuole insegnare nel campo deve iscriversi ai registri di Daesh.

Dal 7 agosto Daesh assedia il quartiere di Ayn Ghazal, creando per gli abitanti l’ennesimo assedio nell’assedio. Coinvolte anche le zone di via Haifa (a est) e piazza Rijeh (a nord): sono tutte aree sotto il controllo di Fath ash Sham, il Gruppo d’azione scrive che vi vivono una cinquantina di famiglie. Al sesto giorno, l’organizzazione ha aperto la strada di Ayn Ghazal dalle 12:00 alle 14:00. Eppure, al 22 agosto, il Gruppo d’azione parla ancora dello stato d’assedio imposto da Daesh nell’area, raccogliendo la testimonianza del dottor Idriss che segnala la situazione sanitaria nella zona sotto i due assedi: gastroenteriti e febbre tifoide causate dall’acqua stagnante che gli abitanti sono stati costretti a bere. Il medico cita anche infezioni dell’apparato respiratorio e la diffusione di malattie della pelle.

Con l’assedio sarebbe rimasto attivo solo l’ospedale Palestina, “ma dentro non c’è praticamente niente”, mi faceva notare un amico. Il quale mi ha spiegato anche che un po’ meno sprovvisto di materiali è il centro situato nei pressi di piazza Rijeh sulla via principale (via Yarmuk, che taglia in due metà il campo per lungo), centro supervisionato dal dottor Idriss.

Al 2 settembre, Daesh sta tenendo sotto assedio le aree di Ayn Ghazal, via Haifa e piazza Rijeh da 25 giorni “nel tentativo di esercitare pressioni su Fath ash Sham perché si arrenda o esca dal campo”. Lo si legge nel report giornaliero del Gruppo d’azione, che il 6 settembre ha poi parlato di un ultimatum da parte di Daesh alle persone nelle aree controllate da Fath ash Sham perché se ne vadano: l’organizzazione avrebbe intenzione di assediarle del tutto.

Daesh sta davvero imponendo il velo integrale (niqab) alle donne nel campo? Questa è la notizia che è iniziata a circolare all’inizio di settembre. Prima dell’assedio a Yarmuk le donne e le ragazze potevano portare il velo che resta aperto intorno al viso scoperto (hijab) come potevano non portarlo. Già la presenza dell’allora Jabhat al Nusra aveva modificato le abitudini e tradizioni del campo in questo senso: anche alle bambine si era iniziato a mettere il velo.

“C’è più gente che ora porta il velo integrale”, mi si dice, con il dettaglio però che “c’è chi lo indossa solo per poter passare attraverso il checkpoint di via ‘Uruba [tra il campo e Yalda, un’area circostante Yarmuk anch’essa assediata ma in cui non c’è Daesh] e poi se lo toglie”. Dalle descrizioni dall’interno pare che nel campo, o quantomeno in alcune zone di esso, non vigerebbe quest’obbligo assoluto per tutto il tempo (“io vedo ragazze che hanno il velo parziale e il volto scoperto, tengono pronto un altro velo per coprirsi di più se devono passare dal checkpoint”, mi ha detto una fonte).

Ci tenevo a entrare più nel dettaglio perché ho l’impressione che Daesh voglia inviare precisi messaggi rispetto al proprio ruolo nel campo, dandone un’immagine estremamente rigida, assoluta. Credo sia importante provare a scardinare questo assolutismo, raccogliendo dati e percezioni.

TORTURE E PRIGIONIA. UN BILANCIO NERO, DESTINI SOSPESI

Importante non dimenticare i casi di tortura subiti dai palestinesi (non solo di Yarmuk) in Siria. Il 31 agosto il Gruppo d’azione segnala di aver documentato i casi di almeno “449 rifugiati palestinesi morti sotto tortura nelle carceri siriane, tra cui donne e anziani”, diffondendo anche il dato di almeno “1.100 palestinesi detenuti nelle carceri siriane”. Il Gruppo ritiene che “il numero di detenuti e di vittime di torture sia più alto di quanto dichiarato, per via della mancanza di dati ufficiali diffusi dal regime siriano e la paura di alcuni detenuti e delle famiglie delle vittime di una reazione della sicurezza siriana”.

Hani Abbas aveva scritto a giugno un pensiero significativo in tal senso: “È più che sangue. Le ore della tortura durante la prigionia, i giorni del senso d’oppressione, gli anni d’attesa e di fame, l’umiliazione, le lacrime, e la separazione… La separazione senza avere neppure il corpo di chi è morto da piangere. Davvero, è più che sangue… Più che sangue”.

Di Niraz Saied, fotografo e attivista storico del campo, non si sa più nulla dall’ottobre 2015. È trascorso ormai un anno dalla notizia del suo arresto, che in realtà non si sa bene quando sia avvenuto. Lo stesso silenzio prosegue anche per Mahmud Tamim, tra gli attivisti che hanno dato di più a Yarmuk, arrestato mentre attendeva di ricevere gli aiuti umanitari un anno e mezzo fa.

Il 12 settembre anche il campo ha celebrato l’‘id al Adha, la festa del sacrificio per i musulmani. Un mio amico che oggi si trova in Libano, tra gli attivisti che si sono spesi di più per il proprio campo, non ha tralasciato nessuno nell’augurare una buona festa, scrivendo anche: “Auguri a tutti i martiri e alle madri dei martiri”. Al 19 settembre sono 3.350 i palestinesi di cui il Gruppo d’azione ha documentato la morte in Siria dal 2011 in poi.

UN RACCONTO CHE CONTINUA

Sempre, quando le notizie dipingono scenari inquietanti, a ridarmi la giusta misura da cui guardare al campo da lontano è l’umanità di quegli amici che lo abitano. Un sorriso in una foto, due parole, un quartiere ripreso nel sole o reso lucido dalla pioggia bastano a farmi ritrovare un po’ di calma.

Perché Yarmuk mi ha insegnato che il racconto continua qualunque cosa accada. Che non ci sono frenate brusche da cui non si possa ripartire. “Quanto mi sono stancata di questo cammino…”, scriveva tempo fa Shadia, meravigliosa attivista del campo. “A chi lo dici”, le rispondeva allora da lontano la sua amica Hadil, “Ma dobbiamo proseguire, finché non saremo noi a far stancare il cammino”.

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* Da un pensiero sull’assedio del fotografo e attivista di Yarmuk, Niraz Saied. (Il disegno è di Claudia Avolio e si rifà a una foto scattata nel campo dallo stesso Niraz).

Questo articolo è stato pubblicato qui

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